Musica
I Mumford & Sons non sono mai esistiti
"Delta", il nuovo album impalpabile della band inglese
di Luigi Ippoliti / 21 novembre
Con Wilder Mind, i Mumford & Sons si staccavano dalle proprie radici roots e provavano a entrare in un più generico mondo pop/rock alternativo: più simili ai coldplay post X&Y che agli ambiti The National, lo facevano con una goffaggine che risultava a tratti meschina: tentativi di scopiazzamenti qua e là, rendevano il quarto lavoro della band londinese il pasticcio di un gruppo di liceali a cui era piombato dal cielo Aaron Dessner in supporto. Sono passati tre anni, Wilder Mind non è un ricordo lontano, anzi: Delta si presenta come suo successore ideale, che conferma il nuovo modus operandi.
Sigh No More aveva l’unico merito, al di là di ciò che effettivamente proponesse, di esser riuscito a portare un genere – seppur in maniera palesemente ammiccante – ai vertici di tutte le classifiche mondiali. Ma, e questo si è palesato dopo, non era esploso nella cultura musicale, ma nel sistema economico musicale: gli strascichi che ha lasciato sono stati minimi, nessun impatto reale e concreto. Un ricordo annebbiato. Di fatto, un album innocuo che all’epoca era stato travestito da altro da sé. Uno dei grandi bluff degli ultimi anni, al pari di An Awsome Wave degli Alt-J.
Di base, e qui sta una chiave, la scrittura di Mumford è facile, ma di quel facile per cui bisogna fare attenzione. Perché appiattisce e omologa.
A questo punto, per non correre il rischio di somigliare sempre a sé stessi, per cercare di trovare nuove strade, forse per noia o disperazione artistica, con risultati piuttosto scadenti, la grande sterzata. Wilder Mind è stato il primo testimone di questo declino: un declino, però, di un impero mai nato. Delta segue in silenzio la strada, rincorrendo al guinzaglio il suo predecessore.
Mumford sembra preso in una morsa da cui non riesce a staccarsi: non è palese, ma strisciante: il kick-drum è pieno di demoni. Sia in Wilder Mind, sia in Delta, risulta ininterrottamente combattuto tra due spinte verso due modi di percepirsi e percepire la musica diametralmente opposte: una parte che mira verso la Stella Polare odierna, all’Olimpo, a Bon Iver (copiandolo, però. E, passando per l’Islanda, l’outro di “Slip Away” non è un calco dei Sigur Rós?); un’altra, invece, ancorata a un sistema a cui sembra non poter staccarsi, a cui sembra dover appartenere per sempre, a un canone da seguire per poter vendere ed essere dunque presenti al presente, incarnarsi tout court nell’immagine di Ed Sheeran: ciò che rende ideali come artisti da pubblicità su Spotify tra un gruppo di canzoni e l’altro – “42” rappresenta questa scissione perfettamente. Mumford vorrebbe essere, ma non sa esserlo.
Delta è un lavoro marginale: nonostante la produzione di Paul Epworth, un paio di chitarre effettate e un po’ di nozioni di elettronica non risolvono le cose. I Mumford & Sons sono stati e sono un abbaglio sin dall’inizio: Sigh No More ere il principio di una creatura grigia che si è mossa nel mercato cercando di captare ciò che andava e, su quello, ha dato vita alla propria ispirazione artistica.
LA CRITICA - VOTO 4/10
Delta conferma i Mumford & Sons come gruppo marginale. Tentativi di plagio e poco spessore artistico sono le uniche armi che il gruppo londinese può, a oggi, mettere in campo.