Libri
I bambini di Dagerman
A proposito di “Perché i bambini devono ubbidere?”
di Federico Musardo / 28 novembre
Quelli di Perché i bambini devono ubbidire? sono testi indipendenti anche se accomunati da un tema che Stig Dagerman ebbe a cuore durante tutto il suo purtroppo breve periodo di scrittore: i bambini. Sempre attraverso il catalogo di Iperborea possiamo leggere l’altro libro dello stesso autore che andrebbe scoperto insieme a questo, Bambino bruciato (1948), il cui esergo presenta al lettore una sineddoche perfetta di ciò che rappresenta l’infanzia per lo scrittore svedese:
«Non è vero che un bambino che si è bruciato sta lontano dal fuoco. È attirato dal fuoco come una falena dalla luce. Sa che se si avvicina si brucerà di nuovo. E ciononostante si avvicina». (S. Dagerman. Bambino bruciato, trad. it. di Gino Tozzetti, Iperborea, 1994).
Vale la pena di riportare l’incipit della breve raccolta, sempre per la sua natura paradigmatica di periodo che sancisce la radicale violenza del mondo verso i bambini: «Si comincia presto a creare poesie. Da bambini si è tutti poeti. Poi in genere ci fanno perdere l’abitudine. L’arte di diventare poeti, tra le varie cose, non è lasciare che la vita, la gente, i soldi ci facciano perdere questa abitudine».
La prima sezione del volume, Memorie di un bambino, è scritta interamente in prima persona. A raccontare la sua infanzia è un bambino che ci ricorda l’autore senza tuttavia coincidervi; per quanto sia una raccolta di scritti di ispirazione soprattutto autobiografica, infatti, il personaggio che dice io è sempre tale, e la vita un’altra cosa rispetto alla scrittura. Il bambino del primo racconto vive in una famiglia contadina e indigente, non conosce i genitori e cresce insieme ai nonni (come Dagerman), invecchiati male per una vita di duro ed eterno lavoro. Nonostante tutto, il piccolo nucleo familiare sopravvive alle difficoltà; il bambino scopre un mondo ingiusto e povero dove il nonno non si vergogna a piangere, viene emarginato dalla società e lavora una vita per campare di stenti. Di Dagerman, anche altrove, ci sorprende la sua reazione, politica e poetica, alla disperazione congenita all’esistenza.
Dagerman sa cogliere limpidamente le sue afflizioni umane, trasfigurate narrativamente in una storia che consente al lettore di immedesimarsi, purché non si dimentichino i dolori privati che contraddistinsero la sua infanzia. Scopriamo l’altruismo degli sconfitti dalla vita, dei tristi, la solidarietà pietosa dei miserabili.
Dopo l’assassinio di suo nonno, il piccolo narratore, originario di Stoccolma e scaraventato tra i contadini che hanno il suo stesso sangue, cerca invano di scrivere una poesia: «Da quella vergogna, dall’impotenza e dal dolore, nacque comunque qualcosa che credo fosse il desiderio di diventare poeta, cioè di poter esprimere cosa vuol dire provare rimpianto per qualcuno, essere stato amato, essere solo». Il bambino fa amicizia a fatica, socializza poco, è un estraneo dovunque: si politicizza e asseconda un impeto anarchico eterodosso, sembra, anche per riempire un vuoto esistenziale. La scrittura, la fantasia, allucinazioni nostalgiche e visionarie come A casa della nonna fanno di Dagerman un vero scrittore. I suoi scritti infatti germogliano dalla stessa vita che scrivendo saprà preservare solamente fino al suicidio: «Dovevo diventare uno scrittore. E sapevo cosa dovevo scrivere: il libro dei miei morti»: sarà Ormen (1945), in italiano Il serpente, suo primo romanzo, scritto quand’era appena ventiduenne.
Questo piccolo libro, corredato da tenere e dure fotografie di un giovane Dagerman (un accostamento quasi brechtiano, se si pensa all’Abicì della guerra), comprende racconti editi anche altrove (ne Il viaggiatore, sempre Iperborea) e presenta uno squarcio del Dagerman critico letterario (Difficoltà di genitori), l’abbecedario di una semplice e naturale insubordinazione all’autorità dove critica alla radice la doxa, il concetto di libertà e cerca di darne un’altra interpretazione.
Perché i bambini devono ubbidire? è un mondo pieno di silenzi che significano soprattutto solitudine, quindi assenza di dialogo, e incomunicabilità. È un miracolo come, nonostante tutto, Dagerman faccia sopravvivere la speranza :
«“No”, disse la nonna, “il silenzio non esiste. Tutto si sente. Quel che noi chiamiamo silenzio non è silenzio, è solo la nostra sordità. Se non fossimo così sordi, il mondo non sarebbe così cattivo. Ma per fortuna c’è qualcuno che sente».
Il libro si chiude con una piccola selezione delle sue poesie, con testo a fronte, satiriche, crudeli perché disilluse, aventi sempre come tema i bambini. Nel contesto della seconda guerra mondiale, Dagerman reinterpreta soprattutto filastrocche per l’infanzia. I temi sono sempre gli stessi: la carneficina inutile della guerra, la morte di bambini innocenti, la colpa patita dallo scrittore e da tutti i lettori.
Il titolo del libro viene da quello di un racconto. Tutti, anche i bambini, devono ubbidire. Dagerman domanda, a sé e ai lettori: perché?
«Così tutti si ubbidiscono a vicenda. Tu ubbidisci agli altri perché gli altri possano ubbidire a te».