Musica
Faccia da schiaffi
A proposito di "Playlist", l'ultimo album di Salmo
di Giulio Armeni / 12 dicembre
Benvenuto Cellini, lo scultore rinascimentale di quel “Perseo con la testa di Medusa” che si può ammirare a Firenze, nella sua Vita riporta un ricordo d’infanzia: un giorno vede far capolino, tra le ceneri del caminetto, una rarissima e brillante salamandra. È lì che il padre gli molla un fragoroso scapaccione sulla guancia; ma nell’asciugargli le lacrime con le dita, rivela di averlo fatto per il suo bene: grazie allo schiaffo non dimenticherà mai quel che ha visto.
Ex studente di liceo artistico, non è detto che Salmo non conosca l’aneddoto. Certo è che il rapper sardo gli schiaffi se li cerca molti più di Cellini. Provocatore per istinto, troll all’occorrenza, Salmo ha conferito al suo ultimo album, Playlist, un’estetica trash da CD masterizzato al volo prima d’un lungo viaggio in macchina, dalla confezione minimalista, alla scritta a pennarello sul disco, alla copertina raffigurante un ritratto mono-orecchio disegnato da un suo fan di otto anni. Le stesse tracce, nella loro estrema varietà tematica, stilistica e sonora, sembrano non poter ricevere alcun raggruppamento più calzante d’una generica playlist.
Quando si cerca di trovare un minimo comun denominatore tra elementi tanto diversi, tutto s’asciuga e rimangono solo quelle poche linee portanti, fondamentali, tracciate dalla mano di un bambino. In un album che annovera il pezzo politico (“90 min”), come l’hip hop irriverente (“Stai zitto”), o una trap per giovanissimi (“Cabriolet”), l’autobiografia (“Ho paura d’uscire”), lo story telling (“Sparare alla Luna”), la canzone d’amore (“Il cielo nella stanza”) il dissing (“Perdonami”) e il brano intimista (“Lunedì”), come si fa a mantenere un’identità definita? La risposta è negli schiaffi.
La versatilità e i vari livelli interpretativi dei testi di Salmo ricordano, seppur in scala 1:x, quelli di Dante Alighieri. Così come nella poesia dantesca il filo rosso di un immenso arsenale stilistico consiste nella concretezza delle immagini e nell’impatto della visione, le rime di Salmo sono di un realismo crudo, a volte grezzo, che accompagna ogni messaggio, come una cinquina ben stampata.
«I rapper di oggi si vestono male / E cantano male / E più fanno schifo / Più sale la fama / Ti sembra normale? / È come se adesso ti vomito in faccia / Ti passa la fame» (“Perdonami”)
Oppure:
«Mi voglio ripulire e dare colpe alla droga / Dici se non piove non crescono i fiori / Ma io sono ottimista e ci piscerò sopra» (“Lunedì”)
Lo schiaffo è doppiamente funzionale nel rap, rispetto alla letteratura. È sbagliato pensare che il rap sia letteratura, per la differenza fondamentale che il rap non nasce per essere letto, ma per essere ascoltato, e per essere ascoltato in fretta. Lo schiaffo rimane impresso nella memoria laddove la memoria sembra non avere tempo per trovare appiglio. Lo schiaffo dà il tempo. Lo schiaffo di Salmo è educativo, non solo nei confronti degli ascoltatori, ma anche verso una nuova scena rap a cui sono stati proprio la gavetta e gli schiaffi a mancare, e in ultima analisi verso una fantozziana classe politica che si prende il palco ormai unicamente per sparare a zero sulla Corazzata Potëmki:
«E facce che cercano schiaffi / Ma trovano sempre gli applausi / Applausi /90 minuti di applausi» (“90min”)
Eppure, per ogni schiaffo che Salmo molla, non ce n’è uno che lui non abbia ricevuto dalla vita, dalla scena, dal sistema, prima di arrivare a dove è ora. Sono i ceffoni che non ti fanno dimenticare da dove vieni, di quelli che ti piazza un genitore quando ti sei assentato troppo a lungo da casa. Sarà per questo che quel volto sulla copertina di Playlist è così minimal. È sfigurato, e forse per questo essenziale, più maturo che mai.
C’è una vicenda che rende, per contrasto, il volto di Salmo. Nel dicembre 2016, ha un alterco via Instagram con Fedez. Quest’ultimo è l’emblema della riconduzione della musica al suo volto, un volto ultra dettagliato e sotto i riflettori almeno quanto quello di Salmo è asciugato dagli orpelli. Della polemica è importante notare la mimica: Fedez, nell’accusare Salmo di essere un invidioso che non sa godersi la vita, guarda fisso in camera, scuote la testa didascalico. Dal tic con cui si sistema i capelli, hai l’impressione che si stia specchiando, più che rivolgendosi a un interlocutore. Accade qualcosa di strano: le sue dichiarazioni, per quanto dure possano essere, suonano blande come carezze. Il prezzo del mostrare in piena luce il proprio volto, nella sua diretta come nella sua musica, è quello di veder svanire la potenza delle proprie parole. Salmo risponderà qualche giorno dopo. È alla guida della sua auto. Lo sguardo è sfuggente, guarda continuamente la strada, un po’ per perlustrare l’incrocio, un po’ per timidezza. Salmo è abituato a negare il suo volto, all’occorrenza. Non per niente è solito indossare una maschera ai concerti, la stessa maschera dei mostri, dei deformi, dei mutilati. Ma le sue parole, come sempre, sono schiaffi:
«Probabilmente è così. Io non sono mai felice. Sto sempre male. Ecco perché continuo a scrivere delle canzoni decenti».
LA CRITICA - VOTO 8/10
Dopo Midnight e Hellvisback, un Salmo alchemico compie un ulteriore passo verso la conquista della pietra filosofale della musica italiana: un CD nazional-popolare e al contempo originale e di contenuti densi.