Libri
La terra dei senza legge
“Elmet”, romanzo d’esordio di Fiona Mozley
di Martin Hofer / 10 gennaio
È tutta una questione di terra, a Elmet. Alcuni, per diritto, ne sono proprietari. Altri, per contratto, sono autorizzati ad abitarla temporaneamente. Altri ancora, invece, la conquistano e se ne prendono cura, rispettando leggi ben più antiche di quelle stabilite dall’uomo.
Elmet (Fazi, 2018), esordio letterario della giovane scrittrice britannica Fiona Mozley, è ambientato nell’omonimo territorio situato nell’attuale Yorkshire. Da come ce lo descrive l’autrice, quello che fu l’ultimo regno dei Celti sembra non aver ancora trovato padrone, abitato com’è da vagabondi, girovaghi e uomini abituati a regolare una disputa senza prendersi la briga di fare un salto in tribunale.
Tra i boschi si combatte, per onore o per soldi, si costruiscono case abusive, si catturano piccole prede con le trappole, si caccia con l’arco. Uno scenario molto più vicino alla sconfinata e selvaggia frontiera della letteratura statunitense che al classico sobborgo working class britannico.
Ad abitare il bosco troviamo John, con i suoi due figli Cathy e Daniel. La casa dove vivono i tre protagonisti del romanzo è stata costruita con il sudore, dal primo all’ultimo mattone, in una terra formalmente posseduta dal signorotto della zona, il Signor Price, «il tipo d’uomo che accelerava quando i pedoni attraversano la strada».
John, conosciuto in tutto il paese per la sua forza strabiliante («aveva una reputazione che andava ben al di là dei confini dell’Inghilterra e dell’Irlanda»), è un uomo ruvido, di poche parole. La sua è un’intelligenza pratica, fondata su competenze concrete e sulla sua debordante fisicità.
«A quanto sembrava, era sempre quello il motivo per cui qualcuno faceva qualcosa per noi. O avevano paura di lui, oppure gli dovevano un favore. […] Gli altri percepivano debiti e reciprocità, immaginavano minacce fondate unicamente sulla sua presenza fisica, fardelli posati sulle loro spalle dalla sua esistenza all’interno del loro mondo».
Eppure, per quanto temuto, John è un uomo giusto, che difende i più deboli e che ama la propria famiglia di un amore “tribale”. Il suo progetto, forse utopico, è quello di forgiare i due figli e, allo stesso tempo, di sottrarli a una realtà cittadina fatta di piccoli soprusi, umiliazioni e meschinità.
«Papà aveva visto la violenza, e continuava a vederla, e non riusciva a capire come fosse possibile per una persona difendersi o crearsi un posto nel mondo se non grazie ai soli muscoli e a mani nude. Per questo ci teneva lì. E adesso capisco che ci aveva vincolati a tutto ciò che ammirava e temeva».
Dopo aver trascorso alcuni anni con la nonna, Cathy e Daniel crescono in questa realtà originaria, fuori dalle regole della civiltà del loro tempo. Cacciano, fumano, cantano e suonano con il padre, proseguono la loro istruzione prendendo lezioni private da Vivien, un’amica di John.
Entrambi taciturni e selvatici, profondamente legati tra loro, i due ragazzi presentano però un’attrazione divergente, rispettivamente verso l’esterno e l’interno del loro mondo.
Con il passare del tempo, la sorella maggiore, abile con l’arco e gran fumatrice, sembra avvertire una spinta sempre più forte nei confronti dell’ignoto. Anziché assistere agli incontri del padre o alle lezioni di Vivien, la troviamo più volte vagabondare per i campi e per i boschi, scontrarsi con bulletti infastiditi dal suo essere “diversa” dagli altri.
«“Sono sempre arrabbiata, Danny. Tu no?”.
Le risposi di no, che non lo ero. Le spiegai che non mi arrabbiavo quasi mai, e lei mi ripeté che si sentiva costantemente arrabbiata. Mi disse che qualche volta le sembrava di andare in pezzi. Che qualche volta era come se si trovasse ferma con i piedi piantati per terra, e nello stesso tempo una parte di lei stesse correndo in avanti verso un fuoco che ruggiva».
Alle fughe di Cathy, si contrappone la spensierata serenità di Daniel. Voce narrante della vicenda, Danny è un ragazzino sensibile, che preferisce cucinare pasticci di carne e studiare di fronte al caminetto con Vivien, piuttosto che bighellonare.
La sua visione del futuro non va oltre il limitare dei frassini del bosco («Vivevo con mia sorella e mio padre, e loro erano tutto il mio mondo»), nella sua vita non sembra esserci spazio per qualcosa di differente dagli affetti da cui è circondato e difeso.
In un passaggio significativo del romanzo, Vivien paragona il desiderio di violenza di John alla necessità delle balene di saltare fuori dall’acqua:
«Quando balzano fuori dall’acqua [le balene] avvertono pienamente le dimensioni e il peso del proprio corpo nell’aria. La gravità, il freddo secco».
E se Cathy dimostrerà di essere in tutto e per tutto figlia di John, il “balzo” di Daniel, la presa di coscienza di se stesso come individuo, sarà invece determinato da fattori esterni e imprevedibili che lo costringeranno a fare i conti con la vendetta. È ancora la terra (ben 48 ricorrenze nel testo) a unire e a dividere gli uomini, a metterli uno contro l’altro, a farli lottare come in una moderna età feudale.
L’esordio di Fiona Mozley convince soltanto in parte: la riflessione sulla violenza resta in superficie – troppo cattivi i “cattivi”; il lato oscuro dei “buoni”, invece, non emerge realmente, ma rimane appeso al progetto ideale dell’autrice – mentre a flashback di un certo impatto lirico si alterna una narrazione più lineare, soggetta talvolta a qualche licenza stonata, come nel caso della frettolosa (quanto poco credibile) descrizione di un omicidio da parte di uno degli scagnozzi di Price:
«Quando lo abbiamo tolto abbiamo visto che aveva gli occhi spalancati, come capita qualche volta ai cadaveri, lo sai. Animali, uccelli, persone, è lo stesso. Spalancati per la sorpresa; molto più di quello che possono sollevarsi le palpebre da vivi, come se il ragazzo avesse voluto cogliere tutto quello che poteva del mondo, catturare un fermo immagine di quel bel boschetto, della luce che entrava tra gli alberi, dei fiorellini sotto i frassini e le querce, catturarlo e portarlo con sé. Solo quell’unica immagine fissa, con gli occhi spalancati. Ha usato i suoi ultimi momenti per riempirsi gli occhi di colori. Ma da lui i colori erano scomparsi. E qualunque tinta avesse ancora negli occhi, sulla sua pelle non ce n’erano più».
Finalista al Man Booker Prize, Elmet racconta un processo di crescita attorno a un doloroso confronto con il male, lo fa costruendo uno scenario scuro e singolare – una sorta di foresta di Sherwood popolata da uomini e donne senza leggi – ispezionando i legami e le pulsioni più profonde dell’animo umano. Una favola cupa, connotata da una visione politica forte che non risparmia alcune interessanti considerazioni sul concetto di proprietà e di ribellione femminile.
(Fiona Mozley, Elmet, trad. di Silvia Castoldi, Fazi, 2018, pp. 280, euro 18)
LA CRITICA - VOTO 6,5/10
La terra è di chi la abita o di chi la possiede? La violenza è l’unico strumento di ribellione per i più deboli? Tra Sherwood e mito della frontiera made in Usa, il romanzo di Fiona Mozley incuriosisce come esordio, ma non convince pienamente nella sua dimensione di “caso editoriale” di respiro internazionale.