Libri
Casa è una somma di mezze speranze
Pinar Selek, “La casa sul Bosforo”
di Fabrizia Conti / 14 gennaio
In un pomeriggio afoso d’ottobre Elif e Hasan camminano sugli scogli di Bostanci. Hanno quindici e diciassette anni, sono cupi, contrariati, vedono il quartiere capitolare «davanti all’odore dell’uniforme, della plastica, del metallo e degli insulti»: è la fine del 1980, un colpo di stato – il terzo in vent’anni – costringe nelle carceri e nelle corti marziali centinaia di migliaia di turchi. «A quei tempi – dirà Elif – tutto si strappava molto in fretta».
A partire da quel pomeriggio, La casa sul Bosforo (romanzo di Pinar Selek, Fandango Libri, 2018) affida a quattro adolescenti inquieti e al quartiere di Yedikule il racconto di vent’anni di storia di Istanbul e della Turchia. Molte le chiavi di lettura possibili: la tensione individuale e collettiva verso la libertà e la giustizia, l’approccio femminile alla politica e alla costruzione di comunità, la resistenza della diversità culturale e privata.
Ho scelto di leggerlo come un romanzo sugli strappi, seguendo i suggerimenti della giovane Elif e dell’autrice del romanzo, Pinar Selek, sociologa e attivista turca che ha trascorso più di due anni in carcere e altri undici nei tribunali; ha subito torture ed è stata accusata di complicità con il Pkk e di terrorismo. Condannata all’ergastolo, vive in esilio in Francia dal 2009, e se nel romanzo ha affidato alle parole del poeta Konstantinos Kavafis il dolore di un suo personaggio, l’armeno Rafi («Non troverai nuove terre, non troverai altri mari. Ti verrà dietro la città»), ha invece così descritto il suo ad Alessandra Pigliaru, su “il manifesto”: «Quando ho intrapreso la strada per l’esilio, Istanbul mi ha seguita. Non come un bagaglio, bensì sanguinando dentro di me. Per bloccare l’emorragia, mi sono dovuta fermare. Prima di rivolgermi ai nuovi luoghi, ho toccato ciò che stava soffrendo. Mi sono presa cura dello strappo e scrivendo l’ho ricucito con questo romanzo».
Ricucire, riparare, ricostruire, resistere. Ognuno a suo modo, per ognuno il giusto strumento. Per Elif la rivoluzione, per Sema la tempesta, per Hasan la melodia, per Salih il sacrificio. E ancora, per Jemal le radici, per Handé il coltello, per Guljan l’ago e il filo, per Artin il legno, per Belguin le profezie, per Kemal il segreto: come Pinar Selek, i personaggi che affollano La casa sul Bosforo non fanno altro che ricucire strappi – personali, privati, ma anche pubblici, politici, naturali.
Strappo è un terremoto, strappo è un colpo di stato. Strappo è l’assenza dei padri, è la povertà, è la prigione, è essere curdi o armeni, è essere greci e subire persecuzioni a Istanbul o essere turchi e convivere con la vergogna di non aver reagito.
Ma ricucire strappi non è una passeggiata. Gli abitanti di Yedikule non ridono poi molto, vivono con rimpianto il passato e con timore il futuro – e più generalmente il tempo, una «strana cosa» cui nulla resiste. Hanno fatto o subito errori, sono partiti o tornati al momento sbagliato, non hanno amato quando potevano o non hanno potuto quando volevano.
Non è mai la speranza a buttarli giù dal letto: come si ripete spesso nel romanzo, ciò che resta è «una mezza speranza», e al rivoluzionario che si rimette in cammino per cercare la propria via viene detto che «per chi è morto non c’è più niente da fare ormai, ma tu cerca di non morire», provaci.
L’unica leggerezza, l’unico desiderio di resistere agli strappi e di ricostruire, l’unica – in ultima istanza – salvezza viene dalla comunità. Yedikule, hanno tutti ben presente, e più di tutti forse la stessa Selek, è più forte della somma delle solitudini che la abitano. Così, chi parte torna e se riparte non lo fa da solo, chi vive solo apre la sua casa, chi non ha figli ne adotta, chi non ha padri ne sceglie di nuovi. “Esserci” è l’imperativo, la condizione necessaria perché una mezza speranza trovi sostegno in un’altra metà, e in un’altra ancora.
«Sai cosa ho pensato ieri sera?», confessa Hasan a Elif, in un pomeriggio afoso dell’ottobre del 1980, mentre il loro mondo cede all’insulto: «Forse stiamo vivendo una leggenda. I grandi sentimenti danno vita a grandi leggende. Ecco forse qual è il nostro destino».
Non sanno ancora che la loro leggenda racconterà di aghi e fucili, di fughe e ritorni, di un orto lontano e di una casa sul Bosforo che darà pareti e soffitti e calore a un’idea – leggendaria sì – di comunità, di convivenza e di resistenza agli strappi e al tempo. «Questo luogo è sacro!» si dirà allora, «La casa sul Bosforo vivrà più di cent’anni!».
(Pinar Selek, La casa sul Bosforo, traduzione di A. Tosatti – C. Diez, Fandango Libri, 2018, 314 pp. € 20.00)
LA CRITICA - VOTO 7,5/10
Pinar Selek torna nella città che le è stata negata con un romanzo corale, un invito a “esserci”, un’idea di comunità.