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Musica

Il primo grande album minore dei The National

A proposito di “I Am Easy to Find“

di Luigi Ippoliti / 24 maggio

Anche quando i The National non riescono a raggiungere lo standard The National riescono a scrivere un grande album. Un bellissimo paradosso che definisce la grandezza di questa band arrivata oggi, con I Am Easy to Find, all’ottavo album. I National sono uno dei pilastri della musica pop/rock 2000 e lo confermano anche quando, stranamente, compiono quello che più che un elegante passo indietro sembra un non-passo. Nato dalla collaborazione con il regista Mike Mills, quest’ultimo lavoro non riesce a seguire in tutto e per tutto la splendida discografia del quintetto dell’Ohio.

Per quanto sia un lavoro imponente nelle sue sedici tracce, complesso, tortuoso e per questo idealmente intrigante, sembra privo, salvo in alcuni momenti, di quella magia che li accompagna da Boxer in poi. È godibile, pur se stancante. Stancante nel suo essere godibile. Quell’imponderabile che accomuna i grandissimi, conclamata qualità che permea i cinque americani, in I Am Easy to Find sembra non trovare posto, dispensata solo in alcuni momenti.

Se i primi tre album (The National, Sad Songs For Dirty Lovers e Alligator) erano dei buonissimi lavori che però non riuscivano a emergere del tutto – o che, almeno, non raggiungevano le vette di quello che poi sarebbe stato -, è dal 2007, anno di uscita di Boxer, che le cose cambiano. È lì che il suono che ora è il suono dei The National si è definito, consolidandosi in High Violet e Trouble Will Find Me, sfociando nello scurissimo e ispiratissimo Sleep Well Beast. È dalle prime note di piano di “Fake Empire” che Matt Berninger è diventato l’autore di primissimo livello che è oggi, coadiuvato dalla sapienza dei fratelli Dessner: da “Guest Room” a “England”, passando per “I Need My Girl”, fino alla carveriana “Guilty Party”, l’evoluzione e le conferme di un artista che sta scrivendo la storia della musica pop/rock.

È la prima volta in cui c’è la sensazione che la ricerca dei The National si sia un po’ bloccata e che alcune soluzioni siano state, se non riciclate, quantomeno pensate meno che in passato. Il timbro della batteria di Bryan Devendorf, da sempre simbolo dei The National tanto quanto la voce baritonale e sofferta di Berninger, non riesce a superarsi, ma anzi, si crogiola nel suo sapersi vincente. Una sorta di incubo per chi vede nella rappresentazione di quella ritmica un esempio da studiare, una guida sull’interpretazione della batteria del futuro – salvo, poi, tornare a splendere in alcuni brani, su tutti “Rylan” e “Quiet Light”.

I Am Easy to Find è piena di voci femminili: Gail Ann Dorsey, Sharon Van Etten, Lisa Hannigan, Kate Stables, Mina Tindle e Eve Owen accompagnano Berninger. Se l’obiettivo era quello di spezzare, la sensazione è che alla fine abbiano sigillato una certa staticità insita già in partenza nel discorso narrativo-sonoro dell’album.

Di base è la prima volta che alcuni brani dei The National risultano fondamentalmente anonimi. Quella che è da sempre una loro caratteristica, il riuscire a immergersi completamente nei loro brani caratterizzandoli a tal punto da far emergere, per ognuno, una propria unicità, in I Am Easy to Find stenta a manifestarsi. Il che rende il blocco centrale dell’album confondibile e straniante proprio perché opera dei cinque americani.

I The National sono sempre i The National e da loro ci si aspetta sempre il meglio. Giunti al 2019 la band guidata da Matt Berninger scrive il suo primo grande album minore. Un momento che forse sarebbe dovuto arrivare e che è arrivato. Il rimpianto, alla fine, è quello di non avere tra le mani il solito grande album dei The National, ma qualcosa che gli somiglia e che non è abbastanza.

LA CRITICA - VOTO 6,5/10

Arrivati all’ottavo album, con I Am Easy to Find I The National scrivono il loro primo grande album minore. Pur essendo un lavoro dei The National, manca il loro tipico carisma. Un’assenza importante e che si sente.