Libri
La Siberia e il destino femminile
“Zuleika apre gli occhi” di Guzel’ Jachina
di Andrea Rényi / 24 giugno
«Questo romanzo appartiene a un tipo di letteratura che credevamo irrimediabilmente perduto con il crollo dell’URSS. In epoca sovietica potevamo contare, infatti, su una nutrita pleiade di scrittori dalla doppia cultura, scrittori figli di una delle tante minoranze etniche dell’impero, ma che sceglievano di scrivere in russo». Inizia con queste parole la prefazione di Ljudmila Ulickaja al romanzo Zuleika apre gli occhi (Salani, 2017), opera prima della quarantaduenne scrittrice tatara Guzel’ Jachina che però mostra una maturità non certo da esordiente in questo libro voluminoso, molto composito, e impossibile da dimenticare.
Sì, in epoca sovietica la lingua russa ospitava molti autori non russi che oltre ad essere grandi scrittori padroneggiavano anche la lingua alla perfezione, come il kirghiso Ajtmatov, o i kazaki Kim e Sulejmenov. Il russo era anche la lingua veicolare che permetteva l’accesso alle opere di quegli scrittori sovietici non russi che preferivano scrivere nella loro lingua madre, come il georgiano Otar Chiladze, ma potevano raggiungere il meritato successo internazionale solo tramite la traduzione russa dei loro libri. Con il crollo dell’Unione Sovietica questo patrimonio si è disperso, grande quindi è la gioia di poter sconfinare di nuovo in un’altra cultura di quell’area, stavolta tatara, con Zuleika apre gli occhi, opera pluripremiata e molto apprezzata non solo dalla Ulickaja ma anche da un altro grande contemporaneo noto anche in Italia come Evgenij Vodolazkin.
La trama tocca punti così estremi da sfiorare l’incredibile, ma sappiamo che la dittatura staliniana andava anche ben oltre. Finita nell’elenco dei kulaki, i contadini possidenti, nel 1930 Zuleika viene deportata come una delinquente qualsiasi. Dopo un viaggio durato sei mesi in un vagone bestiame arriva in Siberia dove partorisce, in condizioni inenarrabili, il figlio concepito prima della deportazione. Lo tira su nella taiga, trova se stessa, e trova persino l’amore nella persona del comandante russo che aveva assassinato suo marito. Sembra fiction, eppure la storia poggia su basi solide: è la ricostruzione della deportazione della nonna dell’autrice che elabora quindi insieme una tragedia familiare e una storica, in uno dei capitoli più vergognosi della storia russa. Il romanzo unisce l’avventura alla quiete narrazione tipica dei grandi classici, ricca di colori, odori, suoni e sfumature sentimentali. Un’opera profonda ed estesa, un caleidoscopio di figure tipiche che rappresentano la società sovietica di un’epoca tragica; un grande romanzo in senso lato, di cui alcune parti potrebbero vivere anche vita autonoma. Il primo capitolo, Un giorno, per fare un esempio: è il quadro della vita quotidiana di una donna tatara qualsiasi, definita all’interno dei recinti costituti dal focolaio e dalla parete della stanza riservata alle donne nella società patriarcale.
Il titolo, Zuleika apre gli occhi, ricorre cinque volte nel corso del romanzo, per contrassegnare le cinque fasi principali della vita della protagonista, che si riscatta con molta sofferenza e con coraggio estremo, tirati fuori non per scelta ma per necessità. Il libro vanta una ricca selezione di allegorie, simboli, parafrasi e episodi surreali. In qualche caso proprio questi ultimi li ho trovati straripanti ed è l’unica nota critica che mi permetto di muovere al libro. Ho trovato straordinaria invece la parafrasi di Il Verbo degli uccelli del mistico e poeta sufi persiano Farid Al-Din ’Attar (morto nel 1221), uno dei capolavori della letteratura persiana, che viene inserita in vari punti della trama, principalmente sotto forma di una favola che Zuleika racconta al figlio. Un’allegoria di una bellezza travolgente, così come il sottinteso inno alla gioia per la vita, una fede nella luce che illumina l’oscurità, una forte impronta positiva che impregnano anche le pagine più tragiche, fino a riuscire a renderle addirittura luminose. Il raro dono di raccontare la tragedia senza deprimere, di insegnare la Storia senza saccenteria.
L’aspetto che colpisce di più nello stile narrativo di Guzel’ Jachina è la plasticità della tecnica cinematografica, la capacità di far vedere e non solo di far leggere. Allevia la fatica del lettore offrendogli solo piacere. È anche merito dell’eccellente lavoro di Claudia Zonghetti, pluripremiata traduttrice di molti autori russi del calibro di Tolstoj, Dostoevskij, Grossman, Bulgakov e Politkovskaja. Solo forse l’autore conosce il proprio testo meglio del suo traduttore che vive in simbiosi con esso anche per molti mesi. In più, il traduttore è anche un appassionato e profondo conoscitore della letteratura che traduce, quindi fonte preziosa di riflessioni, aneddoti, informazioni e suggerimenti. Approfitto dunque della disponibilità di Claudia Zonghetti per passarle la parola, pregandola di parlarci liberamente di Zuleika apre gli occhi e della letteratura delle etnie non russofone della Russia.
Zuleika e le altre:
Zuleika apre gli occhi non è solo e soltanto un romanzo (necessario) sulla collettivizzazione forzata e la deportazione di interi popoli (argomenti di cui poco o nulla si sa e si legge, in Italia), e nemmeno è solamente la storia (straordinaria) di una donna fragile con un carico di sofferenze e prove che pochi riuscirebbero a sopportare. Zuleika apre gli occhi è un esempio misurato e straordinario di come la Storia entra nella storia, ma in una combinazione talmente intensa e insieme rarefatta, che in certi punti il confine tra realtà e fantastico è labilissimo (quando non viene proprio scavalcato del tutto), e ci si ritrova immersi in una situazione fuori del tempo, fra antichi usi e strazi moderni, fra personaggi realissimi da un lato e figure al limite della stilizzazione dall’altro (che da tanta stilizzazione, però, traggono la propria poderosa forza evocativa).
È vero, sì: Zuleika è una storia scritta come raramente capita. Precise ma asciutte, le descrizioni accompagnano chi legge in una realtà altra (nel tempo e nello spazio) senza nulla concedere all’esotismo da cartolina, e la narrazione è talmente intima da ricordare la voce calda e profonda dei “fuori campo” dei vecchi film epici. Ha scritto un critico russo che «leggendo di Zuleika che accarezza il naso di un puledro, subito si ha la percezione fisica della sua mano ruvida e del velluto del manto dell’animale; se Zuleika ha freddo, il riflesso pavloviano del lettore è di rannicchiarsi sotto il plaid; se ha paura, viene fatto di controllare con la coda dell’occhio se c’è qualcuno, alle nostre spalle». Quella di Guzel’ Jachina, insomma, è una scrittura che il romanzo storico non aveva mai conosciuto prima: fresca nonostante l’argomento rovente, agile nonostante il piombo degli eventi narrati, visiva, cinematografica quasi (e dalla cinematografia viene infatti l’autrice), che offre con una leggerezza quasi straniante, a volte, l’orrore di ciò che accade.
Negli ultimi anni ho tradotto con grande curiosità tre romanzi di tre scrittrici profondamente radicate nella loro cultura di origine, ma che hanno guardato alle proprie storie scegliendo il filtro di una lingua “altra”, pur se altrettanto propria. Se per Guzel’ Jachina il tataro era la lingua dei nonni e che con i nonni è scomparsa o quasi, nel caso di Alisa Ganieva (La montagna in festa, la Nuova frontiera), cresciuta in Dagestan, e di Narine Abgarjan (E dal cielo caddero tre mele, Francesco Brioschi editore), armena, entrambe perfettamente bilingui, la scelta del tramite si poneva eccome.
Entrambe hanno usato il russo per dar voce ai propri personaggi, ma entrambe hanno colorato le pagine con innesti dell’altra loro lingua, imponendoci (per fortuna) di aprire gli occhi e le orecchie a lettere e suoni nuovi. Lo stesso, del resto, ha fatto Guzel’ Jachina, che per Zuleika ha attinto a piene mani agli etnoculturemi turco-tatari e al folclore locale.
E di folclore, cibo, spiriti e spiritelli, storie quasi dimenticate, abiti e arredi-madeleine sono piene le pagine di tutti e tre i romanzi, diversissimi fra loro (si spazia dal tema spinosissimo del nuovo Islam caucasico di Alisa Ganieva, alla dekulakizzazione di Guzel’ Jachina, alle catastrofi naturali e umane dell’Armenia di Narine Abgarjan), ma altrettanto uniti da una fortissima volontà di rinascita, di commistione, di mescolanza nel rispetto del diverso e, soprattutto, dal desiderio di conoscenza dell’altro da sé, che del diverso allontana la paura. E il compito della letteratura, del resto, è da sempre questo.