Libri
L’innocenza del male
Intervista a Federico Bonadonna
di Marzia Perini / 19 novembre
Presentato per la fase finale del premio Strega 2019, Hostia. L’innocenza del male (Round Robin, 2018) di Federico Bonadonna ha un titolo tra l’antico e il moderno, con un termine che nella sua definizione latina appare contraddittorio: non è il male a essere innocente, ma chi lo subisce.
L’autore, classe 1966, non è nuovo ad avventure letterarie di rilievo: è suo Il nome del barbone, pubblicato nel 2001 da DeriveApprodi da cui Citto Maselli ha tratto il film Civico Zero. Con Hostia dà conferma della propria capacità di raccontare in modo schietto, duro e senza filtri la periferia romana degli anni Ottanta, per nulla lontana da quella di oggi.
Nel suo romanzo, degrado, disagio e violenza distruggono il rapporto più prezioso che esista, quello tra genitori e figli, che dovrebbe essere fatto di affetto, sicurezza e fiducia indiscutibile ma che si trasforma invece in tradimento e perdita di punti fissi. Per i genitori di Hostia, i figli sono una proprietà, trattati alla stregua di oggetti, e la violenza – fisica, psichica e affettiva – è l’unica forma di linguaggio.
È in questo quadro instabile e senza riferimenti che si muovono paralleli i protagonisti, Martino ed Emma: il primo psicologo quarantenne di un centro diurno, la seconda una bambina di sette anni lasciata nello stesso centro dalla madre, con l’obiettivo di sbarazzarsene. All’apparenza due personaggi senza alcuna affinità, ma i passaggi violenti della vita della bimba diventano, con il fluire della narrazione, chiavi e grimaldelli per aprire le molte porte chiuse dei ricordi di Martino.
Attraverso un rapporto che diventa quasi simbiotico, i due percorrono seppure in modi diversi la strada dell’accettazione resiliente della violenza subita – un male nascosto, dall’aspetto innocente, che ha impedito loro persino di vivere il proprio essere vittime.
Certamente una lettura che lascia spazi a molte domande, che ho rivolto all’autore.
Direi di iniziare dalla genesi del romanzo. Da cosa ha avuto origine la narrazione?
Seppure in forme diverse, questa è una storia che ho in mente da una quindicina di anni. È il caso di due sopravvissuti all’abuso, un adulto e una bambina che si incontrano per caso. Martino scopre che Emma è il bambino che lui non è potuto essere, e riconosce nell’altro la sua parte interrotta. Questo lo aiuterà anche per comprendere le sue fratture interne.
Martino ed Emma sono in effetti diversi, ma simili nel dolore. Vittime diversamente parallele…
Sì, sono due casi di minore abusato, dove per abuso non si intende solo quello sessuale, ovviamente. L’unica differenza è che Martino appartiene alla media borghesia e non al sottoproletariato da cui invece viene Emma: l’abuso su minore è interclassista e trasversale.
Martino Carli è un personaggio quasi fuori controllo: ha una dimora sui generis, balbetta quando dialoga con il padre, fuma moltissimo, ha attacchi di panico e sogni che lasciano intuire un violento scompenso affettivo, si rosicchia le unghie nervosamente. È un po’ l’archetipo di un personaggio disturbato, forse borderline?
Martino ha certamente dei comportamenti bordeline, ma non è mai stato diagnosticato, anche perché questo è un romanzo, non un saggio. Nella prima stesura aveva quarant’anni e faceva il neuropsichiatra infantile.
Anche Emma Solpetti ha difficoltà nel relazionarsi con il suo sé, che relega o alla violenza pura (la masturbazione a sangue) o all’identificazione con l’altro. Penso all’orsacchiotto a cui copre gli occhi, ad Annalisa, la sorella immaginaria, o al modo in cui rappresenta la violenza subita nel “gioco con le lumache”. Una sorta di maschera per nascondersi dal male?
Annalisa, senza svelare il finale, è il doppio di Emma e allo stesso tempo una parte del suo abuso. Emma usa ogni tipo di maschera a disposizione per riuscire a interporre uno spazio fra sé e la realtà.
Nel tuo romanzo sono soprattutto i genitori a perpetrare la violenza, che ha diversi livelli oltre quello fisico. Essi vedono forse nel proprio figlio una proiezione di sé, la possibilità di una nuova vita, di una rivalsa o magari di una vendetta?
In Hostia è quasi solo Carlo, il padre di Martino, a vedere il figlio come una proiezione di sé: infatti lo iscrive nella sezione più difficile del liceo e poi lo obbliga a scegliere scienze politiche. La madre, Luisa, non lo vede affatto: Martino per lei è una sorta di vibratore, di stimolatore sessuale da accendere e spegnere a suo piacimento o, peggio, addirittura una parte fisica di sé, un frammento del suo clitoride.
Per quanto riguarda Emma, è un peso enorme per Valeria, sua madre, che vuole liberarsene – ma non solo per questo, come si scopre alla fine. Ma lo stesso vale per il padre, Sandro. In Hostia i figli sono trasparenti: lo sguardo dei genitori li attraversa, e questo è il loro problema. Ogni persona ha bisogno di essere riconosciuta, e per un bambino è vitale.
Le madri sono in simbiosi più o meno definita con i propri figli. Possiamo definire Luisa e Valeria due diverse facce del lato oscuro dell’essere madre?
Certamente. Luisa e Valeria esprimono quello che molte madri non dicono: l’odio verso i propri figli, il peso insopportabile di averli messi al mondo. Nel loro caso interviene però una patologia psichiatrica – anzi una doppia diagnosi perché sono ambedue dipendenti: Luisa è un’alcolista, come anche Valeria, che fa uso anche di droghe.
Nessuno di loro fa apparire sotto una buona luce il valore della famiglia, che non è più immutabile ma fatto di fili sottili a rischio di rottura. È un modello ormai superato?
La famiglia è mutabile per definizione: solo nel famoso spot del Mulino Bianco, che si continua a portare come esempio, la famiglia non cambia mai, ma quella famiglia non è mai esistita, e quando «i mulini erano bianchi» la famiglia era un luogo terribile dove i bambini iniziavano a lavorare prestissimo e i genitori erano distrutti dal troppo lavoro.
Non esiste un modello unico e universale di famiglia, ogni cultura e ogni epoca storica ha il suo. L’anno scorso è uscito un film giapponese bellissimo, Un affare di famiglia di Kore’eda Hirokazu, che mostra come i rapporti d’amore e d’affetto esistano a prescindere dai vincoli famigliari e sociali.
Mi ha colpito un’affermazione di Martino: «Ho la sensazione di fingere, addirittura di non essere reale, quasi invisibile». Il dolore, la violenza dilaniano al punto da annullare l’identificazione di sé, finendo invece quasi con l’identificarsi con l’autore dell’atto violento.
Martino si sente irreale perché ha vissuto tutta la vita con una madre “pazza”, disfunzionale, che viveva in una bolla perché terrorizzata dalla realtà. La madre ha creato intorno a Martino, ma soprattutto dentro di lui, un campo con un reticolato. La violenza ha una doppia valenza, in questo caso: da un lato fare male e farsi male lo aiuta a percepirsi, far sentire a se stesso di esistere; dall’altro la violenza è la riproduzione coatta di quello che ha vissuto per tutta la vita.
Il rapporto conflittuale dei genitori di Martino è una forma di abuso su minore. Martino si accorge dell’esistenza dell’altro non con la fidanzata Lorenza, ma quando Emma irrompe nella sua vita. La cosa che gli risuona si chiama fratellanza: tra di loro le persone abusate, nei gruppi, si chiamano sopravvissuti.
La letteratura è da vedersi come una speranza terapeutica?
Sartre diceva che «la libertà è ciò che fai con quello che ti è stato fatto» ma, aggiungo io, per capire cosa ci è stato fatto dobbiamo indagare, e ogni indagine è una forma di viaggio. Hostia, che tratta di trauma intergenerazionale, cioè dei traumi trasmessi da una generazione all’altra, è un’indagine nella mente e nella storia dei due protagonisti e dei rispettivi genitori.
A me scrivere serve, o meglio, non ne posso fare a meno. Ho iniziato a scrivere racconti dell’orrore a otto anni, poi sono passato alle poesie che scrivevo su una Olivetti Lettera 22, proprio come quella che Martino eredita da sua madre Luisa, quindi ai saggi. Più che terapeutico, scrivere mi aiuta a pensare, mi aiuta a chiarirmi.
Un terzo personaggio centrale si rivela l’ambientazione, in cui è visibile l’alienazione dell’uomo: le residenze comunali, gli alveari.
A Roma, i residence comunali sono nati per accogliere quelle duemila famiglie che non hanno usufruito dell’assegnazione della casa popolare tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli anni Ottanta, quando le giunte comuniste buttarono giù i borghetti – le baraccopoli sorte tra il dopoguerra e il boom economico per accogliere gli abruzzesi, i marchigiani e gli umbri che si riversavano a Roma.
Sono luoghi di concentrazione e segregazione dei più poveri, come spesso accade nelle case popolari, ma per via del progressivo processo di impoverimento, della carenza di soldi pubblici per la manutenzione degli immobili e dell’arretramento dello stato, si sono trasformati in zone di spaccio, ghetti urbani degradati e violenti che in Hostia assumono la forma di un personaggio, più che di uno sfondo in cui si svolge l’azione.
Quartieri come quello in cui vive Emma rappresentano il fallimento della pianificazione urbana, luoghi buoni per la retorica del politico, o del sociologo, che ha la fortuna di non doverci abitare. Nessun sindaco – che per mandato dura al massimo 10 anni, se viene riletto dopo 5 di governo – ha interesse ad intervenire nella riqualificazione urbana, che non crea consenso elettorale, ma al contrario scontenta tutti: i residenti non collusi con la criminalità perché non si fidano delle promesse dei politici, i residenti collusi perché hanno interesse che nulla cambi per poter proseguire indisturbati con i propri traffici, i politici perché devono faticare nella mediazione…
Anno dopo anno le situazioni peggiorano fino a trasformare i quartieri in terra di nessuno, o meglio in terra del più forte. In Hostia il controllo del territorio non è ancora in mano alla criminalità organizzata, ai clan che di lì a poco emergeranno. Siamo nella fase embrionale raccontata nel film L’odore della notte di Claudio Caligari, che sfocia poi in Suburra di Bonini e De Cataldo. Hostia però non parla di criminalità.
A ben guardare anche l’idea di “casa” come luogo di protezione è messa in discussione. Penso alla casa sull’acqua di Martino, che ha in sé la non fissità, oppure il centro diurno, totalmente asettico, senza un aggancio che sappia di casa, o anche la casa di Emma, malodorante, senza luce e acqua. Manca l’idea di casa come rifugio, non ha canoni di protezione.
Hai colto bene quello che volevo dire: in Hostia nessuno ha una casa stabile (nemmeno chi ha un tetto sulla testa), sono tutti precari, in un certo senso senza fissa dimora. Solo nell’epilogo si trova una soluzione a questa condizione, esistenziale prima ancora che materiale.
Colpisce, all’inizio del testo, la pagina con “i personaggi e interpreti” della storia. Le ragioni sono solo editoriali oppure c’è dell’altro?
Volevo mostrare fin dalla prima pagina che uno dei personaggi del romanzo è il fiume Tevere. Anche il mio romanzo precedente in fondo era ambientato in parte sul Tevere. È un fiume che amo, come l’Aniene del resto, e mi sarebbe piaciuto vivere in un’epoca in cui era balneabile. Oggi ci fanno il bagno e ci pescano solo i marginali, ma fino a cinquant’anni fa il fiume di Roma era vivo. In Hostia, Martino vive su una barca in disuso e si sposta con un gommone. Per esempio, per raggiungere il centro di Roma, Martino risale il Tevere.
Curiose e originali sono le citazioni sonore, sia radiofoniche che musicali: hanno certamente un valore narrativo importante nel racconto. Ce ne puoi spiegare l’intento?
Le citazioni radiofoniche sono tratte da Pronto? l’Italia censurata delle telefonate di Radio Radicale (Mondadori, 1987). Nel 1986 Radio radicale rischiava di chiudere e Pannella, per protesta, lasciò aperti i microfoni offrendo a chiunque volesse esprimersi un minuto per poter dire quello che voleva. Una segreteria telefonica registrò non so quanti messaggi di questo genere: Volevo darvi una notizia ricevuta direttamente dal Kgb, è una bomba peggio del Watergate. La moglie di Ronald Reagan, Nancy, è un travesta brasiliano. E non è stato nemmeno a Casablanca. Bip Sono un cacciatore e ne sono orgoglioso. Meglio un figlio cacciatore che drogato o culattone come voi. Bip
Da queste telefonate emerge un dato per me interessante: non sono i social ad aver trasformato le persone, è il semplice fatto di potersi esprimere senza filtri (e con la garanzia dell’anonimato o almeno della distanza) che porta molte persone a tirare fuori alcune parti di sé altrimenti celate. I social sono solo un amplificatore di qualcosa che c’è già. Avendo fatto iniziare il romanzo nel 1986, ho approfittato per raccontare anche questa storia.
Le canzoni invece sono la colonna sonora di una stagione, quella degli anni Ottanta, che ha visto tanta creatività, a mio avviso non sufficientemente apprezzata sul momento. Tutto è partito perché volevo inserire a tutti costi un tormentone della mia adolescenza, Tarzan Boy di Baltimora. Adoro quel pezzo, mi infonde gioia ed energia, con il suo richiamo della giungla metropolitana e il coro delle scimmie.
Ho voluto inserire le mie piccole passioni dell’epoca, che erano anche quelle della gente comune che non voleva apparire raffinata a tutti i costi. Ci sono così canzoni come Please, please, please, let me get what I want degli Smiths e soprattutto Reel around the fountain, in cui Morrisey dice: «It’s time the tale were told of how you took a child and you made him old» («È ora che si racconti la storia di come hai preso un bambino e mi hai fatto diventare vecchio») ovvero dell’abuso che ferma il tempo, per blocca la crescita dell’abusato: Martino, che ascolta il pezzo, si riferisce indirettamente al padre e alla madre. Ogni canzone si riferisce ad un momento preciso del romanzo: non ha solo una funzione di accompagnamento, ma è legata alla storia narrata.
Anche se collocate negli anni Ottanta, le vicende non hanno il sapore del tempo quanto un profumo di contemporaneità: quasi a dire che la violenza prima era presente ma celata, ora lo è meno.
Hostia ha la pretesa di raccontare una storia universale, che potrebbe essere ambientata nella contemporaneità in qualsiasi parte del mondo occidentale.
Sul testo si sta lavorando per una trasposizione scenica, che vedrà tra gli interpreti dei nomi di spicco. Stai collaborando anche tu o ti limiti a esserne spettatore? Credi che saranno necessari dei tagli o delle rimodulazioni del racconto?
Sì, sto lavorando anche io alla sceneggiatura: l’obiettivo è realizzare una serie televisiva anche se sta prendendo piede l’idea di una trasposizione teatrale. In ogni caso certamente saranno necessarie rimodulazioni perché sono linguaggi differenti.