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L’invisibile nel visibile: quella presenza impenetrabile nei quadri di Vermeer
A proposito di “L’ambizione di Vermeer” di Daniel Arasse
di Claudia Cautillo / 28 novembre
Si può ammirare il chiaroscuro di Rembrandt o il brio di Velázquez, ma solo della qualità inesplicabile che il colore assume in Vermeer (1632-1675) si può dire che «è una coppa di miele colma fino all’orlo, l’interno di un uovo, una goccia di piombo fuso». Una volta che si sono visti i suoi quadri, tutto ciò che i maggiori artisti tendono a mostrarci della loro tecnica e del loro saper fare ci appare come vanità o debolezza, quasi una sorta di bluff. La sua più che singolare capacità di elevare la luce e la materia al rango di personaggi, rendendoli concreti, fisici e spirituali insieme, è la precisa scelta artistica alla base della celebrata dimensione enigmatica delle sue tele, tema cardine del saggio L’ambizione di Vermeer del grande storico dell’arte Daniel Arasse (1944-2003), di recente riproposto da Carocci editore (2019).
Attraverso una rigorosa analisi del corpus dei trentaquattro quadri che ci sono pervenuti, più il dipinto Fanciulla con cappello rosso (1665 circa) di incerta attribuzione, Arasse si interroga sulla più immediata delle caratteristiche del pittore di Delft; quell’ipnotico quid che cattura lo sguardo, quella soffusa aura segreta che inspiegabilmente emana dalla banale semplicità delle quiete scene d’interni, con le sue donne che leggono una lettera o versano lentamente del latte da una brocca, i suoi pavimenti di marmo a riquadri e le grandi finestre aperte che nulla lasciano trapelare dell’esterno.
Vermeer, ben più che semplice «pittore della luce», la cui fortuna critica si è spesso prestata a limitanti semplificazioni, ci viene svelato per quello che realmente è: un geniale precursore che, pur muovendosi all’interno dello specifico Kunstwollen della pittura olandese del XVII secolo, dunque entro i termini di un’arte dell’interiorità, la sorpassa incommensurabilmente, donandoci la suggestione di un invisibile nel visibile, di un’intimità allo stesso tempo vicina e preclusa, di un inconoscibile nel manifesto. Anche in lui, infatti, ritroviamo topoi e pratiche diffuse all’epoca, quali la lettera, gli strumenti musicali, lo specchio, le perle, ecc. non meno che l’espediente volto a separare il primo piano dal vero protagonista della rappresentazione, interponendovi «barriere» di oggetti come tendaggi, tappezzerie, tavoli, seggiole, nature morte e così via.
Ma ciò che lo distingue e rende unico è la portata del suo scarto rispetto ai cliché del periodo, come possiamo osservare ad esempio in La merlettaia (1669-70 circa). Nella sua versione del tema ogni cosa è studiata affinché lo spettatore non veda nulla di ciò che lei fa, dal punto di vista obliquo o la mano che nasconde la visuale del suo lavoro alla ripresa della scena dal basso. Non solo, ma il filo con cui l’artigiana sta lavorando è perfettamente a fuoco, mentre le matasse dei fili bianchi e rossi ai margini del campo visivo sono volutamente sfumati e imprecisi. Il loro colore è spesso, pesante, lento.
Il suo genio ha cioè sapientemente predisposto lo spiazzante paradosso di una visibilità al contempo offerta e sottratta allo sguardo dello spettatore, invitandoci a far nostra l’attenzione che la merlettaia rivolge al tombolo, partecipando così alla sua concentrazione interiore, ma al contempo escludendoci da ogni visione del merletto, da ogni possibile condivisione. Noi non vediamo quello che guardiamo, eppure tutto sembra mostrarlo.
Saggio fondamentale, L’ambizione di Vermeer ci rivela la struttura profonda dell’opera del maestro, quel fine ultimo della pittura che non esiste semplicemente per far conoscere il suo oggetto, ma per rendere colui che guarda testimone di una essenza – inafferrabile tuttavia innegabile – che non si lascia spiegare né permette di essere ricondotta al mero registro dei suoi contenuti, come ne è aderente quanto affascinante esempio La lezione di musica (1662-64 circa), dove l’inaccessibilità interna del quadro è l’inaccessibilità della vita stessa.
Qui lo specchio di fronte all’osservatore è appeso alla parete al di sopra della donna che, di spalle, suona il virginale. Sulla sua superficie – opaca, di una profondità di tono densa come il rovescio di un cucchiaio – vi sono riflesse sia lei che il cavalletto del pittore che sta dipingendo la scena che vediamo. Perciò, a prima vista, lo specchio sembra far coincidere il nostro sguardo e quello dell’artista. Eppure, dal momento che quest’ultimo non vi appare, Vermeer ha deliberatamente escluso ogni testimone esterno dalla sua propria prospettiva. Nell’intimità del quadro, tra il pittore e noi, si instaura una presenza-assenza di cui non possiamo che essere testimoni, senza però penetrarla né risolverla.
Perché di fatto è proprio in questa sospensione di senso, nella voluta ambiguità che rende indecidibile la leggibilità di ciò che è visibile, che si trova la ragione del richiamo singolare e profondo di Vermeer, la sfinge di Delft. Dal piccolo mondo assopito e provinciale della quotidianità ha saputo evocare, come nessun altro, l’anima della vita con tutto il suo mistero.
(L’ambizione di Vermeer, Daniel Arasse, Carocci Editore, 2019, 188 pp., euro 28, articolo di Claudia Cautillo)
LA CRITICA - VOTO 8 1/2/10
Coinvolgente ed esaustivo, è un saggio fondamentale e più che mai attuale per un Vermeer al di là di stereotipi e banalizzazioni