Libri
L’anima sovversiva del cosmo
Il mito del trickster, eroe impostore che scompagina certezze
di Claudia Cautillo / 16 aprile
Trickster makes the world – titolo del noto saggio di Lewis Hyde del 1998, tradotto con Il briccone fa il mondo (Bollati Boringhieri, 2001) – sceglie di attribuire a makes, tra i possibili livelli di senso, l’accezione di creare, formare, costruire. Tuttavia una possibile traduzione sarebbe potuta essere Il briccone fa girare il mondo, più legata al significato di rendere, produrre, realizzare. «Il n’y a pas de vrai sens d’un mot» diceva Paul Valéry e, se al pari di lui crediamo che non esista un significato vero, univoco, di nessuna parola, ciò in questo caso vale tanto più per il soggetto stesso della frase, il trickster: uno dei tanti termini sfuggenti, polisemici e in via di definizione dell’era moderna.
Introdotto per la prima volta nel XIX secolo negli studi di folklore e antropologia religiosa dall’etnologo, archeologo, storico e chirurgo americano Daniel G. Brinton, è figura antropomorfa o animale che sovverte l’ordine costituito, eroe impostore, ambivalente guardiano della soglia tra bene e male, dio o semidio folle o enigmatico, ossimorica e ingannevole maschera presente da millenni nei sistemi mitici delle culture di tutto il globo.
Da Seth e Iside fino a Pulcinella, da Prometeo a Faust, il suo orizzonte interpretativo è così vasto da essere difficilmente riconducibile a uno stesso prototipo universalmente valido ma, legato a simbologie divine piuttosto che diaboliche, che si faccia carico o meno di implicazioni comico-grottesche o di critica ironia, il trickster è in ogni caso rappresentativo di un ancestrale principio destabilizzatore dei codici sociali, pertanto in dinamico rapporto con il potere che di volta in volta li impone e gestisce.
Un livello di lettura del truffatore mitico in relazione a questa sua doppia funzione di energia sovvertitrice quanto di soglia in bilico tra Io e Super-Io, individuo e collettività, e della deriva di senso che ciò è venuto ad assumere in epoca contemporanea, ci viene offerto già dalla mitologia celtica dello sluagh, l’esercito dei morti delle Highlands scozzesi che si muove per l’aria in grandi nuvole che tornano sulla terra, uccidendo pecore e armenti con le sue infallibili frecce avvelenate.
La leggenda vuole che in certe notti si possano perfino vedere e sentire gli stuoli di spiriti ritirarsi e avanzare l’uno contro l’altro in vorticose battaglie, tingendo le rocce del rosso del proprio sangue. La parola gaelica ghairm vuol dire grido, urlo, e sluagh-ghairm è il grido di battaglia delle legioni dei defunti dal quale deriva l’odierno termine slogan, sbiadito equivalente volto a unificare conformisticamente le assuefatte folle della modernità.
Da rito potentemente condiviso a marchio, da segno identitario a luogo comune, l’impoverimento al quale nei secoli è andato incontro il significato profondo – insieme unificatore e dissociante – del termine primigenio, usato oggi in contesto politico e commerciale al fine di stabilire scopi e aspirazioni che sedino o incanalino le energie dell’immaginario, lo slogan si offre come moderno racconto dei rapporti tra regno infero e terrestre, pulsioni inconsce e collettive, singolo e autorità; dunque valida cartina di tornasole delle medesime direttive di senso – al di là dei caratteri più strettamente legati al riso e alla comicità – implicite nel concetto di trickster.
Difatti l’antico principio di un essere truffatore e amorale in grado di sublimare ambiguità e contraddizioni – dall’ambivalente Loki della mitologia norrena, dio dell’astuzia e degli inganni compagno di Odino e Thor, all’Hermes psicopompo degli antichi greci o il Mercurio messaggero e ladro dei latini, dall’Anansi dell’Africa occidentale, a metà tra divinità ingannatrice ed eroe, all’astuta volpe Kitsune del Giappone dalle tante metamorfosi, a volte guardiano benevolo, altre imbroglione – nel nuovo millennio sembra aver perso gran parte della primordiale carica propulsiva.
Ciò non deve stupire perché siamo tutti – morti e vivi, individui e gruppi – nella massa, enigma irrisolto che non può esistere senza il contrappeso di quell’altra soverchiante entità che è il potere, secondo un dualismo antitetico e al contempo complementare. Nella millenaria storia che vive in ciascuno di noi, nel nostro stesso codice genetico, spiega Elias Canetti in Massa e potere (1960), si intrecciano miti e riti dell’antichità quanto del più vicino presente, emblematiche figure di raccordo tra i due sistemi come ad esempio il diavolo, lo sciamano, l’angelo, il trickster.
A quest’ultimo, nell’eterno legame della massa con le egemonie – terrene o spirituali – spetta il compito di rimetterne in discussione lo status quo, fino ad arrivare al punto di dissolverne le certezze. Figura prediletta della mitologia dei nativi del Nord America, nasce al contempo come sorta di spirito guida, “briccone divino” e maestro di metamorfosi capace di assumere a suo piacere ogni forma, da quella di essere umano o animale a spirito dei defunti. Il suo potere si basa dunque principalmente sull’inafferrabile mutevolezza di cui si serve per sovvertire le regole, cogliere di sorpresa, confondere e ingannare.
È per questo che, in reazione alla forza dissacrante portata dalla fluidità della sua mutevole natura, nel corso del tempo le diverse forme di controllo sociale vi hanno reagito con il divieto di metamorfosi. Esempio ne sono le leggi matrimoniali, quando stabiliscano legittima un’unione solo tra individui di sesso opposto o che vietino il tradimento o il divorzio, come accadeva nella Francia degli anni ’20 del secolo scorso quando Joseph Kessel scrisse e pubblicò Bella di giorno (1928), il suo più celebre romanzo, che nel 1967 il genio bizzarro di Louis Buñuel portò sullo schermo con l’omonimo film.
Qui, tra frigidità e desideri perversi, la giovane protagonista Séverine – un’algida, raffinata Catherine Deneuve al massimo della sua bellezza – sfugge alle costrizioni impostale dallo stato di benestante moglie borghese, scavalcando ogni forma di metamorfosi vietata. Pur non coincidendo appieno con l’archetipo del trickster, tuttavia le sono proprie le principali peculiarità: la doppia vita di prostituta, la furbizia con cui inganna marito e amici, il suo ambiguo porsi al limite tra società perbene e underground criminale, il rovesciamento delle regole sociali e la capacità trasformativa di essere una donna diversa con ogni cliente, mutando di volta in volta maschere e comportamenti.
Ma, se il personaggio liminale di Séverine varca la soglia tra giusto e sbagliato, sacro e profano, vivente e morto, arrivando perfino a fingersi cadavere per appagare il desiderio erotico di un inconsolabile vedovo, creando a suo modo un trasgressivo universo altro con una sua intatta energia, non si può dire lo stesso di altre forzate incarnazioni del trickster d’epoca contemporanea, come il Jim protagonista di Rebel without a cause di Nicholas Ray (1955), tradotto in italiano con il titolo di Gioventù bruciata.
Di fatto il film, sopravvalutato drammone statunitense sull’universo adolescenziale dell’America anni Cinquanta, sfocia nell’inevitabile happy end hollywoodiano in cui Jim – interpretato dall’idolo dei teenager James Dean, la cui tragica e prematura morte ne rinfocolò il mito – è una sorta di impacciato demiurgo “senza una causa” che, svuotato dell’enigmatico peso ponderale del doppio non meno che della capacità metamorfica, finisce per riconciliarsi con i genitori e rivelare il suo casto sentimento alla ragazza che ama. Omologante divisa generazionale, Gioventù bruciata trovò massiccia eco nella diffusione dello slogan “live fast, die young”, titolo della biografia postuma di James Dean del 1958.
Del resto, per sua essenza direttamente proporzionale alle coordinate del potere, il trickster non può che rifletterne il progressivo sgretolarsi di leggi morali, divieti comportamentali, tabù e regole sociali nell’analogo sbiadire dell’intensità delle proprie incarnazioni atte a opporvisi, che soprattutto dalla metà del XX secolo in poi si fanno sempre più svincolate dalla forza eversiva del significato originario.
Si sono volute attribuirne le caratteristiche al vago Arthur Fleck – alias Joker – dell’omonimo film di Tod Philips del 2019, ma quanto diversa è la sua disarticolata trasgressione senza sbocco rispetto alla perturbante visceralità del Faust di Goethe (1831) – non meno che de Il maestro e Margherita di Bulgakov, scritto tra il 1928 e il 1940 e pubblicato postumo tra il 1966 e 1967 – furbo e ingannatore come il Mefistofele della leggenda medievale dal quale deriva, criptica e contraddittoria immagine di sovversivo demiurgo tra diavolo e ciarlatano.
Il Joker del film, per quanto debitore al personaggio de L’uomo che ride di Victor Hugo o all’inquietante antagonista del fortunato fumetto Batman della Marvel, più che trickster della postmodernità è irrazionale eroe negativo senza alcuno statuto divino o demoniaco, il cui quid sovvertitore della dinamica del reale, al di là della maschera da clown, non agisce per mezzo del principio di metamorfosi né offre alternative o soluzioni – il filtro di Faust, il fuoco di Prometeo, le invenzioni di Loki – al di fuori di una alquanto generica spinta trasgressiva. Joker non crea nulla, non è essere anfibio tra immanente e trascendente e tutto il suo mistero si riassume nella grottesca risata, nel beffardo ghigno di giullare che suona come accattivante slogan da spot pubblicitario.
Il mondo postmoderno attende piuttosto il succo di viola del pensiero, quel «fiore tinto di sanguigno» che il bugiardo Puck, correndo sul filo tra visibile e invisibile, sogno e realtà, saggezza e follia, spreme sulle palpebre di chi dorme per farlo innamorare, beffando i sensi e scompaginando certezze. Il nuovo trickster, chissà, sarà come lui ambiguo spirito burlone che muta sembianze oppure, simile a Hermes, ingannevole guida extraumana capace di tessere mille imbrogli. Sempre però anima sovversiva del cosmo che sorprende e disorienta, in perenne sconfinamento e contraltare al potere e alle sue logiche.