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Libri

Un ritratto dell’artista da giovane

“Breve storia del mio silenzio” di Giuseppe Lupo

di Domenico Ippolito / 4 maggio

Il nuovo romanzo di Giuseppe Lupo, Breve storia del mio silenzio (Marsilio, 2019) in lizza nella dozzina (tutt’altro che sporca) dei candidati al Premio Strega 2020, è il ritratto dell’artista da giovane, un’educazione letteraria che segue il protagonista dall’infanzia sino alla maturità. Con questo libro largamente autobiografico, infatti, Lupo ci racconta la sua infanzia trascorsa nell’ambiente familiare lucano, ad Atella in Basilicata, soffermandosi in particolare sull’attivismo culturale promosso da suo padre, che amava circondarsi di numerosi intellettuali dell’epoca (siamo negli anni Sessanta). Davvero interessante, per chi scrive, il racconto accorato delle figure di spicco dell’intellighenzia meridionale del periodo, come lo scrittore altamurano Tommaso Fiore, il poeta potentino Leonardo Sinisgalli e altri.

Ancor prima, Lupo narra la nascita della sorellina e di come quest’attesa abbia provocato in lui una sorta di afasia di natura psicologica (è questa la Breve storia del mio silenzio del titolo), rendendogli difficile esprimersi e allertando genitori e medici, i cui rimedi proposti appartengono più a reazioni dettate dal “pensiero magico” (l’aria aperta guaritrice, per citarne una) che a una vera diagnosi empirica.

Superata l’impasse infantile, Lupo farà i conti con la città che si insinua nella sua giovinezza come vera e propria terra promessa: Milano. Già, la città meneghina appare al futuro scrittore una seconda patria, un luogo dalla natura bifronte, dove l’industria procede a pari passo con la letteratura; una meta di sicuro più abbordabile dell’America, altro mito di progresso e di cultura che influenzerà il protagonista. In questo, Lupo è bravo a raccontarsi dentro una vicenda che riguarda più di una generazione; la sua, in fin dei conti, è la storia di chi “ce l’ha fatta” migrando dal Mezzogiorno verso il Nord (la cosiddetta Alta Italia). Un passo visto per molti meridionali come unico e irrinunciabile per potersi affermare professionalmente, al fine di trovare il giusto spazio e seguire i propri sogni, mettere in mostra le proprie capacità, insomma provare a vivere appieno la propria vita.

Il trasferimento a Milano è raccontato con tenerezza, ma anche con consapevole e robusta consapevolezza del suo significato. Nella capitale del Nord, infatti, Lupo compirà i propri studi accademici alla Cattolica (dove tuttora insegna) e proverà a trovare quel “padrino” delle lettere per potersi finalmente affermare come scrittore. Uno degli episodi più singolari del libro è il suo tentativo di scrivere un romanzo d’ambientazione newyorkese senza conoscere la Grande Mela, ma affidandosi a un modellino per poter afferrare, diremo plasticamente, la metropoli.

L’America della letteratura contemporanea, come visto, gioca nella generazione dello scrittore un ruolo altrettanto importante di quella nostrana: accanto ai nostri Calvino, Pontiggia, Pavese e Vittorini, si citano le opere dei narratori statunitensi più influenti del periodo come Hemingway, Faulkner, Steinbeck, insieme alla musica e a Hollywood, le fonti primarie della poderosa industria culturale d’oltreoceano.

La gestione letteraria della memoria e delle sue infinite geografie era riuscita molto bene all’autore anche nel suo Atlante immaginario. In Breve storia del mio silenzio è ammirevole la capacità di Lupo di andare oltre la memoria, di non scrivere l’ennesimo amarcord di cui si sono riempite le pagine di molta letteratura italiana contemporanea, ma di riuscire a stimolare la curiosità del lettore con la sola forza di una scrittura che diventa una vera e propria avventura dentro il mondo del protagonista, in cui sicuramente molti migranti (delle lettere e non) avranno provato a riconoscersi.

 

(Giuseppe Lupo, Breve storia del mio silenzio, Marsilio, 2019, 208 pp., euro 16, articolo di Domenico Ippolito)