Flanerí

Libri

Effluvi di un ricordo

“L’amante” di Marguerite Duras

di Valentina Cela / 23 giugno

Volutes è il nome che Yves Coueslant, fondatore della celebre maison Diptyque, ha dato a una delle sue creazioni: un profumo esotico, speziato, dolce, nato dai ricordi d’infanzia del viaggio che, da Marsiglia, lo portò nella capitale dell’allora Indocina Francese, Saigon, negli anni Trenta del Novecento. Negli stessi anni la diciassettenne Marguerite Duras, pseudonimo di Marguerite Germaine Marie Donnadieu, viaggia nella direzione opposta a quella del profumiere: dal Vietnam rientra in madrepatria per iscriversi all’università e studiare matematica, come vuole sua madre. È forse in questo viaggio il punto di congiunzione tra il profumo e la scrittrice. “Volutes” come le volute disegnate nell’aria equatoriale dal fumo delle sigarette inglesi. Le stesse sigarette fumate da un ricco e giovane cinese quando, sul ponte del traghetto che sfila sul fiume Mekong, nota una graziosa adolescente, con un buffo cappello da uomo e scarpe di lamé, affacciata al parapetto. È questa l’immagine, che Marguerite Duras fa riaffiorare con fatica alla memoria, con cui si apre L’amante. Le note olfattive che costruiscono la piramide di Volutes – pepe, miele, tabacco, frutta secca, incenso, oro – hanno l’odore del corpo di quell’uomo, quel miliardario cinese glabro e debole, abominevolmente innamorato della pelle bianca della francese di quindici anni e mezzo che stringe a sé nel segreto di un’alcova.

Lo sguardo lucido, straziante ma privo di compatimento col quale Duras racconta, quasi sussurrando e servendosi di una sorta di understatement poetico e raffinato, la relazione vissuta a quindici anni con un uomo molto più grande di lei, valse al romanzo il Premio Goncourt nel 1984. Edito in Italia da Feltrinelli nel 1985, nell’opera Duras tenta di realizzare uno scollamento tra scrittrice e scritto: la prosa frammentaria, la narrazione rievocativa, il destreggiarsi tra i tempi verbali per confondere, sovrapporre e infine riprendere immagini, ricordi, riflessioni sconnesse, circoscritte, come un album di fotografie in disordine, tutto concorre a produrre questa separazione.

Storia di un amore soffocato, dolente ritratto di una famiglia disastrata, riflessione sulla costruzione dell’identità di una scrittrice-protagonista che è a volte voce narrante e a volte descritta in terza persona, quasi che Duras stesse parlando di e a una sé troppo lontana nel tempo e nello spazio per poterne rivelare il nome, per ammettere che quel nome è il suo, per riconoscersi e farsi riconoscere nella ragazza col cappello da uomo in feltro a tesa piatta color rosa: di questo sono intrise le poche pagine de L’amante.

In Indocina, nel periodo tra le due guerre mondiali, l’amore tra un ricco uomo cinese e una giovanissima colona povera è ossimorico, scandaloso per ragioni anagrafiche, razziali e sociali, vive solo di quei momenti in cui, nelle righe di luce proiettate sul letto dalle stecche di una persiana calata, Marguerite va ad «approfondire la conoscenza di Dio», abbandonandosi a un piacere «come il mare, sconfinato, semplicemente incomparabile».

Per svuotare di significato i loro incontri rubati, la giovane ostenta una crudele freddezza verso di sé e il suo amante: lo implora di trattarla come tutte le altre donne che egli porta nella penombra della sua garçonnière, nel quartiere malfamato di Cholen, di strapparle i vestiti di dosso e pagarla. I soldi lavano l’onta. La protagonista è una piccola prostituta, ma la decenza per la famiglia è ripristinata: anche se povera, Marguerite è bianca, giovane, francese e un cinese, per ricco che sia, merita solo che di tale ricchezza ci si approfitti. «Hanno stabilito che non l’amo, che non posso amarlo, è impossibile, e lui è pronto a sopportare tutto da me senza mai ottenere il mio amore. E perché è un cinese, e non un bianco».

Ma l’amore non è solo quello proibito, sofferto e languido tra il miliardario e la ragazzina: il romanzo è una disperata e sommessa dichiarazione d’amore a una famiglia impossibile da amare, a una madre preda di crisi maniaco-depressive, perseguitata dalle sfortune e inasprita dalla miseria; a un fratello maggiore aggressivo, bugiardo e dispotico che annienta la vitalità del più debole, il fratello minore, adorato e protetto da Marguerite, che morirà prematuramente.

Antitesi della tormentata protagonista è la rosea Hélène Lagonelle, compagna di stanza descritta con desiderio fremente e mai concretizzato, osservata con invidia forse perché «indugiava ancora nell’infanzia».

Di lei sappiamo tutto, a cominciare dal nome. Al contrario, l’anonimia avvolge la protagonista; non hanno nome neppure i fratelli, la madre, l’amante di Cholen. Hélène Lagonelle «dai seni fior di farina», innocente e puerile, che porta in giro con ingenuità per il pensionato femminile il corpo nudo, inconsciamente voluttuoso, è la nemesi della sua precoce coetanea, gracile e minuta, che ha già scoperto il piacere e vive nella clandestinità una storia che non ammetterà mai, neppure a sé stessa, essere d’amore.

L’amore riceve uno statuto di riconoscimento solo quando la sua impossibilità di realizzarsi slitta dal piano etico a quello pratico: la madre trascina con sé i tre figli nella decisione di lasciare per sempre l’Indocina e tornare in Francia, e l’autoinganno si disvela ai due amanti costretti a separarsi. L’ostinazione a voler sminuire, sciupare, soffocare questo sentimento inaccettabile non è sufficiente per metterlo a tacere – né nello spazio del libro, né al di fuori di esso.

Nel 1992 Jean-Jacques Annaud realizza una trasposizione cinematografica del breve romanzo, e Marguerite Duras scrive L’amante della Cina del nord, rimettendo mano a questo lontano episodio, quest’immagine che non esiste, questa foto non scattata se non nella sua memoria, che inizia con l’attraversamento del fiume Mekong. La potenza della storia che in quest’immagine si sintetizza non è, infatti, esaurita, né Duras si scarica del suo peso solo con L’amante, le cui righe conclusive sembrano una promessa a posteriori di quest’inesauribilità: «Anni e anni dopo la guerra, i matrimoni, i figli, i divorzi, i libri, era venuto a Parigi con la moglie. Le aveva telefonato. […] Lui sapeva che lei aveva cominciato a scrivere libri, l’aveva saputo dalla madre incontrata a Saigon. Sapeva anche del fratello piccolo, disse che ne aveva sofferto pensando a lei. E poi sembrava che non avesse altro da dire. Ma poi glielo aveva detto. Le aveva detto che era come prima, che l’amava ancora, che non avrebbe potuto mai smettere d’amarla, che l’avrebbe amata fino alla morte».