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Libri

Non sono fatto per restare

“Le alternative non esistono” di Claudio Giunta

di Giuseppe Cocomazzi / 19 ottobre

Se di ambiziosi la storia letteraria è sempre stata piena, è soltanto con la società di massa che, un po’ paradossalmente, viene invasa dagli outsider. L’ambizione di questi ultimi era ed è, neanche a farlo apposta, integrarsi. Nel 1997, esordendo in Rai nel varietà dell’anno come coautore ed esperto di memorabilia degli anni Settanta, Tommaso Labranca ce l’aveva fatta proprio un pelo prima che internet «venisse a scombinare le carte».

Aveva saputo coniugare in modo unico una formazione spuria a un fiuto per gli aspetti triviali della cultura, mentre passava da un genere all’altro dello spettro artistico con un eclettismo che ai suoi coetanei, prigionieri di quadri estetici decotti, sembrava incoerenza. Ma a un certo punto, prestissimo, la magia si è interrotta, soffocata da un’intransigenza totale. Non sorprende che la sua opera, e la sua vita, siano al centro di Le alternative non esistono (il Mulino, 2020), perché anche Claudio Giunta è un eclettico e perché gli uomini, anche quelli meno conformisti, malgrado tutto si somigliano parecchio.

Di fronte alla miriade di materiale autoprodotto, disperso, raro e dimenticato il più grande merito di Le alternative non esistono è anzitutto molto concreto: il medievista Giunta ha messo ordine nell’opera di Labranca, l’ha fornita di una cronologia e ha capito che nonostante la promiscuità di generi è una costellazione «compatta, cristallina, facilmente ordinabile in tesi, temi, idee fisse».

Se si eccettuano quelli reperibili in rete i libri di Labranca sono introvabili, cosa che ha due conseguenze: la prima è che il recensore deve arrangiarsi con quello che trova (quasi nulla), la seconda è il paradosso per cui uno scrittore davvero contemporaneo come Labranca è penalizzato da una ricezione quasi medievale; bisogna farsene un’idea per stralci, sulla base di frammenti salvati dalla furia isolazionista con cui lui stesso ha disperso i suoi scritti in misura forse più decisiva dell’indifferenza che a partire da fine anni Novanta lo ha relegato ai margini della vita culturale. Le alternative non esistono è dunque anche una preziosa antologia, oltre che un esempio (ben argomentato, intelligente, umano, chiaro: scegliete voi l’aggettivo che siamo soliti usare con qualunque libro di Giunta) equilibrato e, come dirò poi, innovativo di metodo critico.

In una delle tante interviste con cui amava dare un ritratto di sé, Labranca dice di essere «progressista, autonomo e liberale», e Giunta spiega bene perché autonomo è la parola che lo definisce meglio: al contrario dei «sedicenti avversari dell’establishment che aspirano a farne parte, e che di solito prima o dopo la spuntano», Labranca aveva un profilo culturale troppo anomalo per avvertire tra le sue pagine «quella fastidiosa sensazione di appartenenza a un gruppo, a una setta» che è tipica, secondo Giunta, degli scrittori italiani. Per arricchire la conversazione – e qui rimando agli interventi usciti su La balena bianca –  vorrei soffermarmi sulla parola liberale e sul perché è importante per il taglio che Labranca dà alle cose che sapeva fare meglio e per la delusione che le attraversa.

Nel saggio del 1994 che lo ha fatto conoscere, Andy Warhol era un coatto, Labranca ci invita a risalire la corrente del pregiudizio estetico, quel turbine che ci trascina nella valle del conformismo quando deleghiamo il nostro personale gusto estetico ai produttori del consenso. La libertà di espressione è uno dei cinque pilastri su cui si regge il trash. Nel definire il senso del trash come la differenza tra le intenzioni (grandiose) e il risultato ottenuto (misero), Labranca formalizza non solo l’idea chiave dietro alla sua tecnica di scomposizione della realtà, ma ci fornisce anche la tensione essenziale che attraversa i poli della sua esperienza: l’autenticità e la falsità. Se esercitare la libertà di espressione vuol dire anche esprimere dissenso di fronte alle gerarchie e ai canoni riconosciuti, nella convinzione che l’individuo è troppo stratificato e mescolato per ridurlo all’anonimia, ne consegue che la nostra visione del mondo si aprirà a valori orizzontali e contingenti e sarà più sensibile all’effimero e al nuovo.

È una convinzione schiettamente liberale e accettarla implica la rinuncia allo storicismo e all’idealismo che ancora serpeggiano nelle corporazioni culturali italiane. Come osserva Giunta, la domanda cruciale da porre agli intellettuali italiani «vissuti nella seconda metà del Novecento riguarda la modernizzazione, e in particolare quel volto triviale della modernizzazione che è il consumismo». E gli intellettuali «non hanno gradito», hanno reagito con diffidenza o con viscida complicità. Tra le tante spiegazioni che si possono dare, la più pesante, la più evidente è che le idee ricevute di questa classe intellettuale erano contigue al minestrone di storicismo e idealismo preparato prima della guerra. E questo minestrone è stato allungato, razionato e inscatolato per il discount dell’industria culturale che vede dappertutto affreschi storici e verità universali intercambiabili. La succosa stroncatura dell’Elogio del pomodoro di Citati (in Labrancoteque 8) lo illustra magnificamente demolendo proprio quella immunità che avvolge gli intellettuali italiani più maestosi.

Proviamo a capire che cos’altro ne consegue. Se le gerarchie smettono di legiferare in termini di chi è dentro e chi è fuori, se non riproducono un ordine assoluto, e se il giudizio di valore è relativo a una circoscritta descrizione del mondo, qualcuno potrebbe sostenere che non valga la pena di scaldarsi troppo, che tutto si giustifica per il solo fatto di esserci. Se dobbiamo misurare i prodotti culturali di massa a seconda della loro rilevanza, il successo diventa un parametro affidabile, così come la gloria lo è per le opere dell’alta cultura. Oppure occorre andare più a fondo e considerare intimamente l’ipotesi che entrambi siano futili.

Per una serie di circostanze, Labranca avrebbe potuto essere il primo scrittore italiano pienamente consapevole che nel nostro tempo non importa più restare, essere ricordato presso i posteri. La diffidenza zen nei confronti dell’io, che ha un forte connotato esistenziale, emerge lungo tutto l’arco della sua produzione, non ultimo nella disponibilità a fare da ghostwriter o da biografo. Tuttavia, non è mai bastata a soppiantare davvero il sogno velleitario di diventare un Meridiano, di essere riconosciuto per la sua peculiare intelligenza.

Quando constata la sua assenza nel Catalogo dei viventi, dietro all’autoironia si scorge la paura che lo motivava più di ogni altra cosa, che lo spingeva a cambiare di continuo genere e amici: la paura di diventare la brutta copia di se stesso. In disaccordo con lui, ritengo che rendere giustizia alla sua opera non comporti riconoscerla ufficialmente e ripubblicarla integralmente. La mia modesta proposta è di rendere disponibile online un’antologia delle sue cose migliori.

All’ombra del suo talento, emergono i due limiti più evidenti di Labranca, in primo luogo la riluttanza a staccarsi dalla «media sociologica», dal campione. Perché la misura di Labranca è quella del campione, un aspetto che a mio avviso non viene messo sufficientemente a fuoco da Giunta: da un lato, infatti, afferma che «conta l’habitus, non l’indole, ciò che è comune non ciò che è individuale»; dall’altro, di fronte all’interesse per personaggi che nessuno si era preso la briga di notare, «conta l’individuo, non la specie». L’argomento del campione si può sostenere notando che non appena Labranca incontrava dal vivo Jovanotti, Baglioni, Berti, D’Alessio, era costretto ad ammettere che questi individui erano simpatici e a rivedere il giudizio che aveva espresso sulla base del campione.

L’altro limite è la delusione. Il clima italiano può produrre soltanto la variante disillusa del liberale. L’astio etnografico per l’italianità la caratterizza, ma ancora più forte è un certo gusto per il cedimento, per lo scatafascio, per la indefettibile marcescenza della società umana. Il liberale italiano disilluso non reputa probabile l’apocalisse, ma soltanto perché la vuole attraente e amara, senza alternative. Quando uno scrittore indulge al pessimismo nella consapevolezza che troverà molti animi concordi, sta approfittando di un privilegio culturale. Lo considero un comportamento dannoso.

Torniamo però ai meriti di Le alternative non esistono. Giunta ha saputo coltivare un interesse, senz’altro mimetico, per l’uomo Labranca, fermandosi prima di invaderne la privacy. È una scelta di sostanza e un’indicazione di metodo, che lascia qualche perplessità solo nel tentativo di aromatizzare il racconto all’inizio (il presunto suicidio) e alla fine (l’omosessualità). Se si parte dal presupposto che la letteratura, in questo frangente storico, ha perso la sua rilevanza a vantaggio delle scienze sociali, qualsiasi tentativo di affresco storico o di analisi sociologica si scontrerà con enunciazioni arbitrarie e indimostrabili. Il comportamento degli uomini emerge molto più chiaro, e con cognizione di causa, nei saggi di economia, sociologia, biologia.

Questo non vuol dire che la letteratura sia diventata irrilevante. Non si tratta nemmeno di ripetere, come ormai si fa a comando, che raccontare è un bisogno essenziale dell’uomo. Per chi accetta a pieno la contingenza del momento, si tratta di capire che cosa può fare la letteratura oggi, e una delle possibili risposte è che uno scrittore può descrivere gli individui all’interno di una sfera che le altre discipline non hanno interesse a illuminare. Claudio Giunta mette al servizio di un particolare individuo, Labranca, alcune tecniche di quello studio supremamente contingente che è la filologia. Il sentimento che sta evocando, allora, non è più la venerazione, il timore o anche solo l’ammirazione, ma qualcosa di più terreno: l’affetto.

 

(Claudio Giunta, Le alternative non esistono, il Mulino, 2020, 264 pp., euro 23, articolo di Giuseppe Cocomazzi)