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Luigi Capuana: realismo e fantasia
Intersezioni tra moduli veristi e meccanismi fiabeschi
di Priscilla Santoro / 5 novembre
All’interno del panorama letterario, il genere favolistico costituisce un importante fil rouge dalle differenti declinazioni formali, non di rado fruttuosamente contaminate con altre discipline ‒ si pensi, per citare i casi celebri, alle riflessioni psicanalitiche condotte su questo genere da Freud, all’impianto socio-politico degli apologhi di Sciascia o alle tonalità fortemente satiriche delle favole di Gadda.
Nella storia della letteratura, nondimeno, la favola si affianca a una altrettanto significativa produzione fiabesca: la presenza di alcune componenti comuni (quali soprattutto la presenza di animali e l’impianto morale) spesso responsabili di una sempre maggiore confusione teorica tra i due generi, non supplisce, tuttavia, all’importante numero di differenze strutturali che, relative non solo ai moduli narrativi ma anche alla caratterizzazione dei personaggi e alle coordinate spazio-temporali, sopravvivono anche quando favola e fiaba, accolte nel canone novecentesco, subiscono una serie di interessanti metamorfosi formali, coerenti con gli imperativi di sperimentazione e destrutturazione caratteristici del secolo.
Luigi Capuana autore di fiabe
Un caso che esemplifica con chiarezza la grande circolazione della forma fiaba è costituito dall’opera di Luigi Capuana, il quale, nonostante il fondamentale contributo apportato al Verismo italiano, ha reinterpretato, in una fase matura della propria formazione intellettuale, la funzione del narratore alla luce di norme ben canonizzate all’interno del panorama fiabesco, adottandone anche quei tratti meravigliosi e fantastici particolarmente vicini alla tradizione folklorica.
L’evidente contraddizione teorica nonché strutturale che oppone alle fiabe presenti in questa porzione della sua produzione i canoni di verisimiglianza alla base dell’ispirazione di stampo verista sembra risolversi, nondimeno, nella puntuale designazione del destinatario ideale cui indirizzare la narrazione fantastica. Già nella Prefazione della prima raccolta, C’era una volta…fiabe (Treves, 1882, pp. 5-8), Capuana medesimo riconosce esplicitamente nella propria opera i connotati tipici della letteratura di infanzia (corsivo mio):
«Queste fiabe son nate così. / Dopo averne scritta una per un caro bimbo che voleva da me, ad ogni costo, una bella fiaba, mi venne, un giorno, l’idea di scriverne qualche altra pei miei nipotini. […] Avevo anche la non meno seria preoccupazione del giudizio di quel pubblico piccino che irrompeva rumorosamente, due, tre volte al giorno, nel mio studio, per sapere quando la nuova fiaba sarebbe finita».
Consapevole di questo profondo scarto teorico-formale tra la forma fiaba e il canone realistico («Vissi più settimane soltanto con [quel mondo meraviglioso], ingenuamente, come non credevo potesse mai accadere a chi è già convinto che la realtà sia il vero regno dell’arte», scrive nella suddetta Prefazione, p. 5), egli vuole dapprima giustificare la propria apparente incursione nel genere fiabesco riconducendone l’occasione a circostanze straordinarie («Il mio tentativo ha una scusa: le circostanze che lo han prodotto», p. 8), sulle quali infatti si sofferma diffusamente (p. 5):
«In quel tempo ero triste ed anche un po’ ammalato, con un’inerzia intellettuale che mi faceva rabbia, e i lettori non immagineranno facilmente la gioia da me provata nel vedermi, a un tratto, fiorire nella fantasia quel mondo meraviglioso di fate, di maghi, di re, di regine, di orchi, di incantesimi, che è stato il primo pascolo artistico delle nostre piccole menti».
Eppure, nell’ultima sequenza della Prefazione, un’allusione all’orizzonte dei possibili lettori sembra sconfessare una totale identificazione tra delle semplici nugellae e la categoria del meraviglioso (p. 8):
«Non mi è parso superfluo dir questo al benigno lettore, pel caso che il presente volume trovasse qualcuno che volesse giudicarlo non soltanto come un libro destinato ai bambini, ma anche come opera d’arte. […] Ben mi stia, se le Fate, per dispetto, abbandoneranno ora il mio libro alla severa giustizia della critica!»
Tanto più che questa raccolta non costituisce un esperimento isolato. Negli anni successivi, infatti, vengono pubblicate numerose altre edizioni: tra le più famose, ll raccontafiabe (Bemporad, 1894); Il drago, novelle, raccontini e altri scritti per fanciulli (Voghera, 1895); Chi vuol fiabe, chi vuole? (Bemporad, 1908); Si conta e si racconta (Muglia, 1913) e Le ultime fiabe, tuttavia postume (Mondadori, 1919) ‒ i testi sono oggi raccolti nella recente Stretta la foglia, larga la via. Tutte le fiabe, curata da Rosaria Sardo e illustrata da Lucia Scuderi (Donzelli, 2015).
Caratteristiche della fiaba tradizionale
Tratti tradizionali contraddistinguono la maggior parte delle fiabe di Capuana.
In primo luogo, infatti, creature fantastiche agiscono in un quadro caratterizzato sempre dalla medesima struttura narrativa: l’azione, ora costituita dall’interazione fra un personaggio di modeste origini, ma virtuoso, e un membro della famiglia reale (il Re, la Regina, o il Reuccio e la Reginotta) ora incentrata su una predizione nefasta o sulla minacciosa presenza di un mostro invincibile, si risolve nel successo dell’eroe e nel conseguente lieto fine, spesso garantito dall’intercessione di un essere magico (Fata o Mago) che premia la magnanimità del protagonista dopo averlo messo alla prova. Si pensi, ad esempio, alla vecchina che, ne L’uovo nero, avendo risolto una serie di quesiti posti dalla corte reale, riesce, grazie all’intervento di Fata Morgana, a trasformare un gallo nel principe del regno.
In secondo luogo, l’indeterminatezza cronotopica che caratterizza lo svolgimento dell’intreccio e che viene solitamente evocata con formule d’esordio ricorrenti in quasi tutte le fiabe («C’era una volta il Re…», «Si racconta che la Reginotta…»), perché utili a legittimare la posizione di potere detenuta dai personaggi protagonisti in virtù del loro sangue reale, colloca l’azione narrativa in generici palazzi nobiliari e in luoghi sconosciuti all’orizzonte umano, come la grotta de La fontana della bellezza o la vallata de L’albero che parla.
Distici dal ritmo di filastrocca, non di rado derivati dalla tradizione popolare e reiterati in fiabe diverse, chiudono la narrazione. La loro ampia circolazione ha spesso agevolato una cristallizzazione in forme proverbiali, la cui originale ascendenza letteraria è andata via via sbiadendosi. Esemplificativa, a questo proposito, la formula «Stretta la foglia, e larga la via / Dite la vostra, ché ho detto la mia», in Senza orecchie, I tre anelli, Il soldo bucato e Il barbiere, ripetuta anche nella variante «Stretta la via, larga la foglia; / Ne dica un’altra, chi n’ha la voglia» de Il gattino di gesso.
L’impianto morale che presiede la fabula, inoltre ‒ complice anche la finalità didattica di ciascun testo ‒ non solo polarizza le categorie etiche di bontà e malvagità in una netta dicotomia, ma costituisce anche una cartina di tornasole utile all’interpretazione generale. La fisionomia polisemica che abbiamo visto sinora contraddistinguere molte favole politiche, infatti, caratterizza anche i moduli fiabeschi, autorizzando delle sovrapposizioni simboliche tra particolari personaggi o situazioni e determinate tipologie morali, emotive o temporali. Ad esempio, la padellina magica che, nell’omonima fiaba, cucina pietanze succulente per la povera contadina tanto magnanima da donare a una mendicante affamata la sola pagnotta in suo possesso, ma frigge cibi più amari del veleno per i lavoratori ingordi, simboleggia la gratitudine; l’indovinello che, imposto al principe come condizione per sposare la figlia di Fata Fiore ne Il buco nell’acqua, prescrive al giovane di perforare la superficie acquea, rappresenta invece il valore della costanza: quando infatti egli, comprendendo l’impossibilità di forare l’acqua allo stato liquido, penetra con un bastone una lastra ghiacciata, asserisce che «spesso noi abbiamo il torto di credere impossibile una cosa che ne ha l’apparenza e non è tale».
Insomma, si tratta di un meccanismo figurale tipico della tradizionale struttura fiabesca, la cui portata nel panorama letterario può essere ben descritta con le parole spese da Calvino nell’Introduzione alle Fiabe italiane (Mondadori, 1956, pp. 6-63):
Le fiabe sono vere. Sono prese tutte insieme, nella loro sempre ripetuta e sempre varia casistica di vicende umane, una spiegazione generale della vita […], sono il catalogo dei destini che possono darsi a un uomo e una donna […] e soprattutto la sostanza unitaria del tutto, uomini bestie piante cose, l’infinita possibilità di metamorfosi di ciò che esiste.
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Nel testo, riproduzioni della prima di copertina originale di L. Capuana, Si conta e si racconta, Muglia, 1913 e di Id., Stretta la foglia, larga la via. Tutte le fiabe, a cura di R. Sardo, Donzelli, 2015, insieme all’illustrazione realizzata da Lucia Scuderi per la fiaba La padellina.