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See more glass: Per Esmé, con amore e squallore
Un percorso nella produzione breve di J.D. Salinger
di Davide Coltri / 27 marzo
È un percorso di avvicinamento ai racconti e alle novelle di Salinger, quello di Davide Coltri, che si sofferma su alcuni dei temi più cari all’autore.
Leggi qui gli altri articoli. E un’avvertenza: è probabile che ci siano spoiler, se questa parola ha un significato quando si parla di Salinger.
Quarta puntata
Per Esmé, con amore e squallore
Per Esmé – con amore e squallore venne pubblicato l’8 aprile 1950 sul New Yorker ed è considerato da molti critici il miglior racconto di Salinger. La storia ha a che fare con molti dei soggetti ricorrenti nella produzione dell’autore newyorkese: i postumi dell’esperienza di guerra, la semplice profondità dei bambini, il distacco dal banale quotidiano, la comunicazione epistolare. A rendere unico il racconto sono la dolcezza e l’intensità con cui lo scrittore presenta l’incontro tra esistenze sulla soglia.
Il Sergente X ha 26 anni nel momento in cui incontra Esmé, lei ne ha 13; la scena si svolge in Devon: in poche ore il Sergente si sposterà a Londra per prepararsi al D-Day, la ragazzina canta in un coro di voci bianche, il suo parlare è sospeso tra l’infanzia e la maturità.
Il racconto è diviso in tre parti, e in ciascuna emergono l’isolamento e l’alienazione del protagonista: dalla moglie e la suocera nella prima (ambientata nel 1950), dai commilitoni e dal mondo nella seconda (aprile del 1944), dal Corporale Z nella terza (maggio 1945, a guerra finita). Il Sergente X si imbatte in Esmé in una chiesa dove la ragazzina prova con un coro e la sua voce si stacca dall’omogeneità delle altre causando il rimprovero della direttrice, al che il Sergente si allontana.
I due si rincontrano in una sala da tè, dove lui si è rifugiato per evitare di passare le ultime ore prima della partenza con gli altri soldati. La ragazzina lo riconosce, gli si avvicina, si siede al suo tavolo e i due intraprendono una conversazione che sarà spesso interrotta dal fratellino Charles, che fa boccacce e indovinelli. Durante lo scambio, si stabilisce tra i due una comunione insolita e intensa: il Sergente non dice e non vuole dire quasi nulla di sé, Esmé invece parla apertamente del padre, ucciso (lei scandisce u-c-c-i-s-o[1] perché Charles non capisca) in Africa Settentrionale, delle sue qualità, della relazione tra i genitori, con una sfrontatezza e un lessico forbito che ne segnalano sia l’estrazione aristocratica che l’inevitabile precoce maturità. La ragazzina si comporta da madre col fratellino, e ingaggia col Sergente una conversazione più che alla pari: ad essere intimidito è l’uomo, che non sa come replicare alla domanda se i suoi racconti siano pubblicati. La ragazzina quasi aggredisce il sergente con la sua vitalità e con la sua vulnerabilità esposta e articolata nei dettagli, come a volerlo scuotere, a trattenerlo al di qua della soglia per un ultimo istante di umana comunione.
Ma per il Sergente è troppo tardi: poche ore dopo sarà a Londra e da lì scagliato in un massacro simile a quello che ha reso orfana Esmé. Ma c’è tempo per uno scambio importantissimo: Esmé chiede al sergente di scrivere una storia per lei, una storia incentrata sullo squallore, e si lascia andare a un equivoco che ce la fa finalmente scoprire bambina e meno mondana di quanto si sforzi di apparire («Dissi che non ero uno scrittore terribilmente prolifico. “Ma non c’è bisogno che sia prolifica! Basta che non sia infantile e sciocca”»). Prima di lasciarsi, lei chiede il permesso di scrivergli, e lui lascia nome, grado, matricola e numero postale su un foglietto. Charles vuole tornare a dare un bacio al sergente, ed è una scusa per riconciliarsi dopo una gaffe dell’adulto a proposito dell’indovinello preferito del bambino.
Nella terza scena, il sergente è in una casa appena liberata, ha affrontato il D-Day, la battaglia nella foresta di Hürtgen, due settimane di ricovero per esaurimento nervoso. È ancora vivo, ma sradicato, solo, freddo. Ed è in quel frangente che ritrova una lettera che Esmé gli ha spedito 38 giorni dopo il loro incontro, ma che viene aperta solo ora, 13 mesi dopo. Assieme alla lettera c’è l’orologio che la ragazzina portava al polso il giorno cui si erano conosciuti, e che apparteneva al padre. Il vetro è rotto, e il sergente non ha il coraggio di verificare se le lancette girino ancora.
L’orologio è il sergente: scosso, forse inutilizzabile, non c’è riparazione che lo possa ripristinare. Ma non per questo il ritorno di Esmé è meno importante: pur ritardato, indiretto, inaspettato, arriva con una vitalità che esce dalla pagina e ci fa pensare a tutte le Esmé che abbiamo trovato nel prima che tutti abbiamo vissuto quando il mondo sembrava ancora tutto intero. Nella desolazione dello stress post traumatico, nella testa che sbatte come «una valigia mal sistemata sulla reticella di un treno», oltre la devastazione della foresta, i commilitoni morti macellati dai mortai, la stupidità vigliacca di chi spara a un gatto per divertimento, il Sergente trova l’ultima (l’unica?) persona che lo aveva trattenuto al di qua – nella vita. La lettera di Esmé gli consente di scivolare in un sonno che cura (come già era successo a Franny alla fine di Zooey). Dopo la bufera, l’incontro epistolare con la ragazzina è il primo fondamentale atto di salvataggio del Sergente, che un giorno (come avviene nella prima parte del racconto, cronologicamente l’ultima), sarà talmente riadattato alla mondanità da riuscire a scherzare sul fatto che la moglie non gli permetta di andare al matrimonio di Esmé. Un uomo con tutte le facoltà certamente non più “i-n-t-a-t-t-e”, ma buone abbastanza per restare a galla, e per capire che il ruolo di Esmé nella sua vita doveva esaurirsi in quell’unico incontro irripetibile.
Cosa ne è di Esmé? Oltre alla notizia del suo matrimonio, non ne sappiamo niente. Ma vogliamo con tutti noi stessi che sia ancora la stessa: prematura e forbita, ferita ma guerriera, con la capacità di riconoscere un vero poeta (come accade a Buddy in Alzate l’architrave, carpentieri) e la sfrontatezza di chiedergli una storia. Una di quelle storie che la Signora Grassa di Seymour si mette a leggere sulla sua «orribile sedia di vimini» e che Salinger continuerà a tentare di scrivere per tutta la vita.
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[1] La traduzione italiana riporta “ucciso” senza trattini, ma l’originale è “s-l-a-i-n”.