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Musica

Semplice di Francesco Motta

Il nuovo album dell'artista toscano

di Luigi Ippoliti / 5 maggio

La fine dei vent’anni è stato uno squarcio  nel panorama musicale italiano del 2016. In un momento in cui l’indie diventava definitivamente mainstream e la trap faceva prepotentemente irruzione nel mercato discografico, pareva di aver trovato qualcuno che potesse prendere il testimone di  una tradizione che si metteva coscientemente di traverso nei confronti dello showbiz: per attitudine, forma, contenuto. Motta aveva scritto l’equivalente degli anni ’10 di Canzoni per spiagge deturpate.

Seguiva, e segue, una linea che parte dai Cccp, passa per gli Afterhours e i Marlene fino a Le luci della centrale elettrica, con tutte le mutazioni dovute dal cambiare della società.

Dopo il suo esordio c’è stato Vivere o morire, che ha confermato il buono e i limiti della sua proposta, e ora arriva al suo terzo lavoro, Semplice.

Diverso approccio rispetto ai suoi predecessori: non ci sono pezzi che suonano come instant classic della sua produzione  (se non l’ottima “E poi finisco per amarti“). Meno d’impatto e meno immediato. Più vago, sfuggente. Continua, in quest’ottica, sulla scia di Vivere o morire, senza però  avere la sua coerenza di fondo. Una scelta? Qualcosa di più contemplativo? La suggestione della semplicità come sofisticatezza?

Può essere che l’intento fosse questo. Ma quello che ne esce fuori, invece, è un discorso che ha a che fare con le fondamenta della poetica di Motta, i suoi cardini, la sua scrittura, i suoi testi.

La sensazione è che riesca a dare il meglio in canzoni che abbiano la forza del singolo (sempre in un contesto alt) e che invece quando cerca di staccarsi, provando strade più contorte per quelli che sono i suoi standard, perda di efficacia.  L’esempio immediato è nella de gregoriana “Qualcosa di normale“, dove si nota come tutto l’architettura poetica non riesca a stare in piedi.  Ed è un discorso che attanaglia quest’album, e che già in passato si subodorava.

Emerge, in Semplice, quello che è sempre stato uno dei limiti, ovvero la stesura dei testi: il confondere una scrittura asciutta con una tendenzialmente piatta, dove si lavora sempre sulle stesse sinapsi e lo si fa in maniera quasi adolescenziale. In passato questo veniva nascosto (quasi sempre) da brani che funzionavano anche se avesse fatto un cut up dei testi dei Gazosa e dal suo incredibile timbro vocale. Ma che oggi invece non possiamo non vedere (esempio “Quello che non so di te“).

Motta pare senza  punti di riferimento (salvo in rare occasioni), soccombe ricercando una chiave di lettura a cui non riesce a dare un senso e una direzione. Le ballate che ci propone sono piuttosto anonime e anche quando aumenta i giri (tranne nella già citata “E poi finisco per amarti”), non riesce a dare quel tocco che in passato lo ha assurto ad alternativo tra (finti) alternativi. E si accontenta di un album che banalmente si lascia ascoltare ma che lascia davvero poco.

Il tentativo è stato quello di fare un passo in avanti, il risultato invece è stato un mezzo passo indietro. Non è un problema di sedimentazione di un codice che è cambiato, di tempo per abituarci a questo Motta, ma proprio di una problematica strutturale con cui Motta dovrà fare i conti.

 

 

 

LA CRITICA - VOTO 6/10

In Semplice emergono i difetti  che nei due precedenti album di Motta si intravedevano.