Libri
Una favola per riequilibrare il mondo
“Il rosso e il blu” di Luca Giommoni
di Martin Hofer / 17 maggio
«Le favole servono solo a sperare che tutto possa andar bene quando va male» afferma a un certo punto un personaggio minore di Il rosso e il blu (effequ, 2020). Ma se Luca Giommoni ha scelto di utilizzare la favola come chiave di volta del suo esordio, non è certo per proporre comodi lieti fini o letture buoniste della più terrificante strage avvenuta in questo nuovo millennio.
Ispirato dall’esperienza di insegnante per stranieri maturata dall’autore, il romanzo è incentrato sulle vicende dell’improbabile eppur credibilissimo centro di accoglienza straordinario Arcobaleno e dei suoi ospiti, perlopiù migranti sbarcati in Italia in attesa di ripartire verso nuove destinazioni. Possibile raccontare il dramma consumatosi tra la coste libiche e quelle italiane con i toni di una fiaba senza peccare di patetismo o di cinismo? La risposta è sì, se si hanno ben chiare le intenzioni.
Giommoni utilizza infatti questo filtro da un lato per esorcizzare le ferite che i suoi personaggi portano ben impresse sulla pelle, dall’altro per smontare gli stereotipi e i luoghi comuni che tanto ci confortano quando abbiamo a che fare con il fenomeno delle migrazioni.
Ecco come si descrive in un passaggio la traversata a bordo di un barcone:
«Bastava voltarsi un attimo, un solo attimo per cercare una stella cadente per affidarle un desiderio, per ritrovare posti occupati soltanto da gocce salate. Nel mare ognuna aveva le sue priorità: “Il telefono!”, “Dov’è il documento, dov’è andato?”, “Il mio bambino! Dov’è il mio bambino?”, ma il mare le accoglieva tutte. Le onde si aprivano come carezze, poi tornavano a ripetere la stessa canzone triste».
E forse è proprio per il loro non aderire affatto alle narrazioni costruite da media e politici (“i giovanotti prestanti” contro “i poveracci”) che gli ospiti di Arcobaleno vengono visti dagli altri come pazzi, o più semplicemente come tonti.
Makamba, giovane maliano appena arrivato nel centro e “innesco narrativo” del romanzo, si è messo in testa di riequilibrare tutti i rubinetti del mondo, causando non pochi disastri. «Più che da una nave o dalla sofferenza Makamba pare sbarcato da un’idea», l’idea di rimettere a posto le cose a cominciare da un piccolo e utopico gesto idraulico che possa riavvicinare gli esseri umani. Una missione impossibile? Forse, ma, citando l’autore, a immaginare altri mondi non si finisce poi per cambiare anche questo?
Aggrapparsi a qualcosa, anche a qualcosa di insignificante, per darsi uno scopo, o per negare la crudeltà, come accade a Benedict, nigeriano scampato a una struttura di raccolta (prigionia) libica. Incapace di accettare la disumanità dei suoi carcerieri e torturatori, Benedict, novello Billy Pilgrim di Mattatoio n.5, preferisce convincersi di essere stato rapito dagli alieni per un esperimento («Qui, se vuoi farcela, devi trovare una tua forma di pazzia»).
Lo stesso processo, stavolta simbolico anziché psicologico, lo riproduce anche Fagadan, il ragazzo con la gomma da cancellare in tasca, sempre pronto a eliminare tutto ciò che non gli piace («Quando ho capito che con la gomma potevo cancellare gli errori, la prima cosa che ho cancellato è stata la Libia»).
Discorso diverso invece per Malang, ex ospite di Arcobaleno diventato poi mediatore linguistico per il centro. Malang vive in Italia da tanti anni, ha imparato che per essere accettato deve abbassare la testa, dare il meno possibile nell’occhio, perché se sei straniero vai bene solo se ti mostri umile e non disturbi.
Trovandosi in una terra di mezzo, il suo punto di vista è sensibilmente differente da quello degli altri personaggi, ma la sua posizione è comunque instabile: dentro il centro è “quello che ce l’ha fatta”, ma appena fuori torna a essere un immigrato qualsiasi da bersagliare di banane.
Dall’altra parte, ma non meno strampalati, ci sono i collaboratori del centro Manfredi, Valerio e Santiago. Ognuno di loro sembra incarnare una differente anima dell’accoglienza post Decreto Sicurezza e un ruolo per certi versi speculare a quello degli ospiti.
Manfredi, il direttore, è l’entusiasta che pur di aiutare le persone getta il cuore oltre l’ostacolo, spesso a scapito dei dipendenti (e dei loro stipendi). Come a volte succede in questi ambiti per scarsità di fondi, il lato volontaristico scavalca quello lavorativo, trasformando l’attività in un atto di eroica improvvisazione.
Valerio è invece un insegnante di italiano ormai sopraffatto dal carico di dolore con il quale è quotidianamente chiamato a confrontarsi. Di fronte alle continue ingiustizie subite dai suoi allievi, Valerio ha imparato a rispondere con una strategia collaudata: la FTGC (fughe da tristezze da grande continente). Impossibile spiegare, rendere conto dell’insensatezza della burocrazia o del razzismo, meglio offrire una colazione al bar e poi darsela a gambe di soppiatto.
E poi c’è Santiago, il tuttofare ossessionato dalla rendicontazione, che sopperisce agli stipendi arretrati accumulando assegni familiari e bonus bebè. Queste coppie di personaggi (Makamba e Manfredi: i sognatori; Benedict e Valerio: i fuggitivi; Malang e Santiago: i disillusi) creano un fronte comune di sbandati che si oppone al vero antagonista del romanzo: la burocrazia.
Chi sono i veri pazzi?, sembra chiedersi l’autore. Questa gang di emarginati o le autorità che di volta in volta somministrano la loro piccola o enorme dose di potere sul destino di un individuo? Le esilaranti situazioni in cui il carceriere o il burocrate di turno sono messi in ridicolo dallo spiazzante candore dei nostri – momenti nei quali si riconosce un certo debito nei confronti di Il buon soldato Sc’vèik – mostrano con efficacia come la pazzia non abiti il più delle volte nei sognatori, ma nell’indifferenza di chi esegue gli ordini.
Ci si incanta, ci si arrabbia e ci si commuove al cospetto di questa favola sgangherata. È solo una favola, ma questo mondo «ha bisogno di storie e di qualcuno che ci creda, che ci creda veramente».
(Luca Giommoni, Il rosso e il blu, Effequ, 2020, 256 pp., euro 15, articolo di Martin Hofer)