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Quando i surrealisti spodestarono Anatole France

Un golpe artistico

di Enrico Picone / 5 giugno

Nell’ottobre 1924, le più alte cariche istituzionali dello Stato francese si raccolgono attorno al feretro di Anatole France. Solo due anni prima, la Francia perdeva Marcel Proust. La tradizione si impoverisce gravemente, quasi si esaurisce con la morte dell’intellettuale che in vita era stato elevato allo status di somma autorità morale e letteraria. Tuttavia, non si preannuncia alcun passaggio di consegne. Sulla scorta dell’esperienza dadaista, una folta ciurma di ribelli prepara il golpe artistico. Poche settimane più tardi, André Breton pubblica il primo manifesto surrealista, presentando il movimento nella forma di «una metafisica della poesia, un mezzo di liberazione totale dallo spirito e da tutto ciò che gli rassomiglia».

La nuova coscienza collettiva si propone di mandare tutto in frantumi, pretende la frattura con il passato, progetta l’emancipazione generazionale dall’arte conservatrice e reazionaria. Per questa ragione, la morte di Anatole France viene celebrata dai surrealisti come la liberazione da un totem letterario. Contestualmente alla pubblicazione del manifesto, viene prontamente pubblicato e diffuso il pamphlet Un cadavre, un’azione corale condotta dai surrealisti intenzionati a presentare la nuova dottrina artistica, a seguito della quale la reputazione di Anatole France viene spodestata e gettata nel fango. Gli autori sono André Breton, Louis Aragon, Philippe Soupault, Paul Éluard, Joseph Delteil, Pierre Drieu La Rochelle. Ciascuno concepisce la propria invettiva contro France, Aragon la presenta sotto il titolo di Avez-vous deja gifle un mort? (“Avete mai preso a schiaffi un morto?”). Da simulacro dell’élite intellettuale francese, France subisce una metamorfosi che lo rende esso stesso un manifesto dei surrealisti. L’esito della metamorfosi è ovvero un bersaglio esanime esposto alla ferocia di Breton e dei suoi pari. La frattura è insanabile.

L’ispirazione surrealista persegue la follia e il sogno, lì dove si compie l’inibizione della coscienza. Ai valori tradizionali dell’arte, Breton preferisce l’automatismo psichico, inteso come il venir meno del controllo razionale quale condizione necessaria per il «funzionamento reale del pensiero». Muovendo dalla trascrizione dei sogni e dalla provocazione dell’inquietudine, l’automatismo psichico è la condizione ricercata dagli artisti che obbedendo a una rinnovata vocazione rinnegano il contenuto dell’arte. Circa un decennio dopo la pubblicazione del primo manifesto, Salvador Dalí lavora a Il mito tragico dell’Angelus di Millet, un trattato fondamentale della dottrina surrealista contenente le esperienze visive angosciose sofferte da Dalí e da questi elaborate tramite il metodo paranoico-critico, «capace di oggettivare anche le associazioni del caso oggettivo determinato dalle associazioni interiori». Dalí descrive «tutta una serie di visioni che cerco sperimentalmente e frequentemente di provocare in me, e che si producono anche in pieno giorno, nei momenti che sembrano più banali, inattesi, ma di fatto più particolarmente nelle circostanze in cui la mia attività è mobilitata da occupazioni meccaniche». Associazioni deliranti, stati di shock, immagini paranoiche si manifestano alla sensibilità dell’artista che di ogni altra forma d’arte tradizionale non ha più alcuna considerazione.

Il fluire di immagini generate ai confini della coscienza, provoca nella produzione letteraria di Breton l’effetto inconsapevolmente ricercato dello humor, che è possibile rintracciare anche nel cinema, dove la tecnologia messa al servizio dell’inventiva di Picabia e René Clair ha permesso la realizzazione del film Entr’acte, realizzato nel 1924 con il solo proposito di far ridere liberando lo spettatore dallo sforzo di elaborare razionalmente l’espediente ironico. A proposito della sceneggiatura di Picabia, René Clair osservò che il suo contributo aveva permesso la liberazione dell’immagine allo stesso modo in cui era già stata liberata la parola: «qui l’immagine, distolta dal suo compito di significare, acquista un’esistenza completa. Nulla mi sembra più rispettoso dell’avvenire del cinema di questi balbettamenti visivi» (v. “Caravanserraglio di Francis Picabia” di Antonio D’Ambrosio). Tra gli interpreti di Entr’acte figurano Marcel Duchamp, Man Ray ed Erik Satie. L’esperienza fotografica di Man Ray è insolita, sconcertante e ironica, proprio come la colonna sonora composta da Satie per l’occasione. Il surrealismo prevede che artisti diversi si avvalgano dell’automatismo psichico ricevendo immagini, suoni e movimenti possibili solo alla libertà spirituale ostinatamente ricercata. L’equilibrio tra reale e irreale che era già stato spezzato da Jonathan Swift, e prima ancora con l’ironica avventura di Astolfo alla ricerca del senno perduto di Orlando sulla Luna, viene nuovamente infranto. Si apre una voragine nella sensibilità degli artisti che uomini come Anatole France non possono capire. Di questa opinione era sicuramente Delteil, che in Un cadavre scrive: «quest’uomo mediocre è riuscito a estendere i limiti del mediocre. Questo scrittore di talento ha spinto il suo talento fino alla porta del genio, se non fosse che è rimasto alla porta».

Tuttavia, i surrealisti non ignorano le questioni delle quali si è fatta carico la tradizione artistica e letteraria. Piuttosto, giudicano sterile il contributo dato dalla generazione di intellettuali raccolti attorno ad Anatole France. La libertà resta la questione prioritaria, ma una volta posta sotto una seconda lente questa mostra la sua duplice natura: individuale e sociale. Quest’ultima da realizzarsi affinché si renda possibile la liberazione dello spirito. L’arte che rappresenta l’arte non può più essere ammessa, la sola forma artistica è l’azione liberatrice ispirata agli ideali rivoluzionari. «La letteratura è un’idiozia» scrive Rimbaud, richiamando l’attenzione verso i due riferimenti teorici inerenti la libertà sociale e individuale: Marx e Freud. Illuminando la surrealtà delle cose, e consentendo la liberazione dai tabù, l’automatismo psichico permette al surrealista di partecipare alla trasformazione del mondo.

L’irruzione degli autori de Un cadavre all’indomani della solenne cerimonia funebre di Anatole France, prevede il vilipendio dell’ideologia in cui si riconoscono gli intellettuali che patrocinano il defunto. Il loro interesse per il mondo viene considerato privo di autorevolezza, poiché pretendono di fornire l’interpretazione dei fenomeni socio-politici di un mondo che si rifiutano di frequentare. Scrive Delteil: «davvero non ci interessa. È indifferenza assoluta. Non aveva alcun ruolo nella nostra vita, nella nostra ricerca, nella nostra lotta. Viveva solitario, ermeticamente chiuso. In lui non c’è traccia di curiosità per l’ardente giovinezza, non un grido, non un gesto. Sì, ci interessiamo così poco di lui così come lui si è interessato così poco di tutti noi. Non è forse un nostro diritto?». E ancora: «ci dicono che sia stato il nostro Voltaire. Ma non è di Voltaire che abbiamo bisogno, ma di Rousseau, Bonaparte e Robespierre». Il nucleo della memoria collettiva francese è composto dall’esperienza rivoluzionaria, rievocata anche dai surrealisti per rivoltarla contro l’élite intellettuale giudicata sterile e impotente. I surrealisti celebrano fatti, proteste, condanne, neppure il suo credo socialista può assolvere Anatole France dalle loro invettive: «E che non ci parlino del suo titolo di comunista! Dove mancano i fatti, la parola è sterilità. Blanqui ha trascorso quarant’anni in prigione. Ammettiamo i comunisti solo in prigione». A chi riconosceva in lui l’ineguagliabile genio letterario di cui la Francia aveva bisogno, France rispondeva di ritenersi un civilizzato piuttosto che un genio. Su questo aneddoto torna Delteil, chiosando come la Francia non avesse bisogno di civilizzati: «noi abbiamo bisogno di barbari! Noi che abbiamo sete e fame, Anatole France è il regime degli antipasti».

Il conflitto mondiale che aveva traumatizzato la generazione perduta, aveva al contempo preparato il terreno per la rivolta culturale ispirata dal diffuso sentimento di sconcerto per la contemporaneità. Arte, religione, famiglia, patria, tutti i riferimenti ideologici e culturali erano stati messi alla berlina già dai dadaisti, ottenendo l’approvazione di chi voleva sottrarre l’arte agli artisti, svuotandola del contenuto sterile e riempendola del dolore che aveva scosso la sensibilità di chi era sopravvissuto per raccontare. Quando Delteil scrive come Anatole France non fosse in grado «di prendere l’uomo per le viscere», che «tutto è vuoto intorno a lui, i suoi libri scorrono tra le dita come sabbia», ricorda tanto le parole di Céline quando riteneva che gran parte della tradizione letteraria «puzzasse di gratuito», perché concepita da uomini che non avevano avuto il coraggio di mettere in gioco la pelle.

Parrebbe probabilmente una forzatura ogni tentativo di rintracciare un nesso tra il viaggio onirico intrapreso dai surrealisti e i voyage raccontati da Céline, specialmente quello di Guignol’s band, dove il lettore viene circondato da personalità surreali come quella del miasmatico fantasma Mille-pattes. Eppure, quella produzione letteraria era riuscita nel prodigioso tentativo di rintracciare il buco nero della nuova poetica francese, ambientando al suo interno le vicende umane, i suoi drammi, le sue pretese. Su “La Révolution Surréaliste” del 1° dicembre 1924 si legge: «sia la conoscenza che la razionalità non hanno più rilevanza, solamente il sogno lascia all’uomo il diritto alla libertà. Grazie al sogno, la morte perde il suo senso oscuro, e il senso della vita appare indifferente».