Libri
L’uso eversivo della follia
“Italian Psycho” di Corrado De Rosa
di Anita Fallani / 18 novembre
Quando mi sono affacciata alla facoltà di Lettere dovevo compilare il piano di studi e scegliere uno fra tre esami di storia. Nella vergogna personale per aver studiato molto poco negli anni liceali avevo scelto subito di iniziare con Storia contemporanea per mettere una prima ma importante pezza alle lacune che mi portavo dietro. Ricordo bene di aver comprato il libro e di averlo foderato con attenzione, convinta di volermi appropriare finalmente di conoscenze imprescindibili in maniera adeguata e non superficiale. Alla fine di ciascun capitolo c’era un approfondimento tematico su uno degli argomenti trattati: arrivata alla parte dedicata all’ascesa del nazismo in Germania, trovo una frase che introduce il personaggio del Führer: «Hitler era un pazzo». Speravo che con l’inizio dell’Università si riuscisse ad abbracciare in maniera più complessa e complessiva l’analisi di fenomeni così rilevanti, eppure in quel momento mi sembrò di trovarmi davanti, se non a un luogo comune, almeno a un eccesso di semplificazione riduzionista. Ricordo bene che andai da una delle mie compagne di corso per chiederle se anche lei non lo trovasse grave, fermandomi a bisbigliare tutte le perplessità su quella pagina.
Mi sembrava concreto il rischio di trascinare un personaggio storico di simile rilevanza oltre qualunque confine di razionalità, o addirittura di assolverlo da ogni responsabilità politica e ideologica circa il suo operato. La personalità di Hitler avrà sicuramente inciso sul periodo più buio nella storia dell’umanità, ma non per questo si può trascurare come la politica, anche quella nazista, sia sempre un fenomeno sociale che si radica in uno spazio storicamente determinato che produce mentalità, culture, pensieri. Mi è tornato in mente tutto questo leggendo Italian Psycho. La follia tra crimini, ideologia e politica (minimum fax, 2021), in cui lo psichiatra Corrado De Rosa restituisce da un’angolazione molto particolare la vita di alcuni celebri personaggi della storia italiana: il momento processuale in cui è stata chiamata in causa la malattia mentale come pretesto giustificatorio o assolutorio per i comportamenti di cui erano imputati, per dirne alcuni, Pietro Valpreda (accusato dell’attentato di Piazza Fontana e di essere pazzo, in quanto anarchico), il mostro del Circeo Angelo Izzo, l’attentatore di Giovanni Paolo II Mehmet Ali Agca, le “nuove” Brigate rosse responsabili dell’omicidio di Marco Biagi, il mafioso Bernardo Provenzano e lo ’ndranghetista Peppe Pelle. De Rosa non insiste su tutte le vicende giudiziarie, ma sul momento esatto in cui il tratto psicotico viene annunciato in un’aula di tribunale, per il quale sia la difesa che l’accusa si trovano a gestire un discorso tentacolare, spesso interpellato per trascinare i fatti oltre l’orizzonte del comprensibile.
Prima di dedicare una sezione a ciascuno dei personaggi, De Rosa si sofferma per alcune pagine sull’utilizzo di termini quali “follia” e “pazzia”, volendo restituire loro un’accezione medica senza però accodarsi alla tendenza per cui tutti i nostri comportamenti debbano essere medicalizzati o, peggio ancora, patologizzati. Se l’utilizzo improprio nel discorso comune di queste parole, da una parte, può normalizzare alcuni stati d’animo che dovrebbero rimanere un’eccezione (si pensi alla brandizzazione dell’ansia sulle cover del telefono con frasi come Come si disinstalla l’ansia?), dall’altra il suo uso in campo giuridico «è pericoloso. Farlo significa lasciare intravedere una giustificazione per comportamenti, al contrario, profondamente umani. Perché se è vero che malattia mentale e responsabilità non vanno necessariamente insieme, è altrettanto vero che l’immaginario collettivo considera il matto non responsabile delle sue azioni».
Le due figure che introducono nel libro il problema dell’utilizzo linguistico della parola “matto” rappresentano l’una il calco dell’altra. Pinochet riesce nel 2000 a sospendere il processo che lo vede accusato per la cosiddetta “carovana della morte” grazie alla testimonianza della moglie sull’annebbiamento mentale di cui è affetto: agli psichiatri spiega che il marito confonde le date, non riconosce chi lo visita, dimentica eventi importanti e ha perfino perso la capacità di risolvere i problemi. In sostanza Pinochet sarebbe affetto da una malattia senza sintomi che lo rende «un uomo malato con le apparenze di una persona sana», comunque capace di firmare autografi. Solo nel 2004 la corte di appello gli revocherà l’immunità. Il secondo esempio, che rispecchia un comportamento specularmente opposto a quello di Pinochet, è Anders Breivik che il 22 luglio del 2011, dopo aver ucciso otto persone con un’autobomba a Oslo, si veste da poliziotto e sull’isola di Utøya ne ammazza altre sessanta al meeting annuale dei giovani socialisti norvegesi. Vuole proteggere l’Europa dall’islamizzazione, odia gli immigrati, ha paura per la deriva marxista della Norvegia ed è per questo che ha agito così: ha protetto la sua nazione. Per questo motivo esige una linea difensiva che si fonda sulla totale responsabilità delle sue azioni, è sano, ed è per questo che, come lui stesso dice, «questo è un processo che riguarda l’estremismo politico, non la psichiatria».
L’interesse specifico di De Rosa è quello di sottolineare l’intreccio che ha interessato la giustizia italiana tra vicende politiche e uso criminale dei disturbi mentali, per evidenziare l’atteggiamento che questo paese ha avuto questo di fronte a fenomeni smaccatamente politici come il terrorismo (rosso o nero che fosse), la strategia della tensione, l’islamismo radicale, la mafia o l’omosessualità. Aprire questa riflessione permette infatti di illustrare come ha reagito il senso comune a vicissitudini drammatiche, oppure evidenziare la necessità politica di non far comprendere le ragioni sociali di alcuni accadimenti, delegando l’interpretazione alla psichiatria.
Di esigenza si parla, perché la scomodità di personaggi come Pier Paolo Pasolini è ancora oggi evidente quando ci addentriamo a capire le matrici del suo omicidio. Di lui è ancora ben risaputa l’accusa di pedofilia e di comportamenti scabrosi: subì trentatrè processi e tutti si risolsero con un’assoluzione o una archiviazione. La figura centrale che però ha segnato l’immaginario pubblico in relazione ai processi a Pasolini è Aldo Semerari, un criminologo che girava con un cinturone delle SS tedesche. Incaricato dall’accusa di una perizia per uno dei procedimenti subiti da Pasolini, cavalca l’onda italiana di quegli anni che considera l’omosessualità una malattia. Il campo delle opinioni si divide tra l’anormalità e la giustificazione genetico-biologica come se si trattasse di una deviazione dalle leggi della natura. Sono anni in cui si praticano sedute eterosessuali terapeutiche perché il primo Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali del ’52 ha inserito anche l’omosessualità tra le patologie; si dovrà aspettare il 17 Maggio (divenuta poi giornata internazionale contro l’omofobia, la bifobia e la trasfobia) del 1990 perché ne sia espunta. Semerari giocò così con la sua autorevolezza medica e i continui riferimenti al linguaggio tecnico per screditare la figura di Pasolini e sovrapporre la sua immagine all’idea immorale e inaccettabile che accompagna l’omosessualità.
Le undici storie che De Rosa riporta attraversano vicende giudiziarie decisive per la nostra storia, come la strage di Piazza Fontana o il rapimento di Aldo Moro, ma anche fenomeni odierni, come il terrorismo islamico: in proposito va sottolineata la scelta di chiudere l’antologia con il caso di Maria Giulia Sergio, la prima donna italiana ad aver aderito all’Isis. Il fenomeno del terrorismo è spesso avvertito come cruento e fanatico al punto da non poter in nessun modo essere ricondotto alla volontà del singolo. Tra tutti i capitoli, questo dedicato a Fatima al-Zahra (così si chiamerà la giovane italiana dopo la conversione) è forse il più biografico. Viene infatti ricostruita la sua vita, il suo avvicinamento alla religione musulmana, il primo matrimonio, il divorzio per la poca ortodossia del marito, la partenza per servire Allah, la conversione di tutta la famiglia ed infine la perdita delle sue tracce dopo una videointervista con il Corriere della Sera. Il motivo che ha portato Maria Giulia a compiere una scelta simile è forse da intendere non come un’alterazione della coscienza, quanto come effetto del funzionamento intrinseco dell’Isis, che «si propone come un organizzatore di pensiero che aiuta a definire il proprio ruolo, restituisce un orizzonte, diventa dottrina di salvezza per chi è alla ricerca di punti fermi in una vita fatta di riferimenti inconsistenti».
L’aggettivo “normale” utilizzato come metro di giudizio porta con sé pericolose distorsioni. Il termine ha principalmente un valore statistico (è normale mangiare due volte al giorno, non è normale dormire due ore a notte) e non morale come invece tendiamo a utilizzarlo. E proprio in conclusione alla sua lunga panoramica sull’Italia vista da un’aula di tribunale De Rosa spende, da medico, importanti parole su questo termine: «La normalità è magmatica. Normale vuol dire standard, regolare. Normale è quello che non disturba. Normale è convenzione. La normalità è un’illusione ottica, circoscriverla è complicatissimo. Gli statistici la misurano, i filosofi ne vivisezionano il significato, gli psicanalisti la criticano, i clinici provano a perimetrarla. Ma dov’è la linea di confine fra anomalia e anormalità? Fra aspetti del carattere e disturbo della personalità? Fra malattia e cultura?».
Nonostante il nostro bisogno di dividere tutto tra normale e anormale come se fosse un’unità di misura applicabile ovunque, Maria Giulia non ha agito per costrizione psicologica ma per intenzione. Il rischio, sottolinea De Rosa nelle sue conclusioni, è proprio che i medici e questo utilizzo della psichiatria siano i primi professionisti a essere corrotti dai sistemi criminali. L’abolizione dell’infermità mentale è oggetto di discussioni politiche (Nixon tentò di toglierne l’uso nei processi), ed è forse maturo il tempo per una riforma sul sistema di attribuzione degli incarichi peritali in modo che gli specialisti possano scegliere se lavorare per conto dei privati o dell’autorità giudiziaria e non, come succede oggi, avere una volta un incarico di parte ed essere un’altra la voce dello Stato.
In tutto questo, Hitler era pazzo? Probabilmente sì, ma fu soprattutto il primo dei nazisti.