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Libri

Uno sguardo al passato per indagare il presente

“Trama d’infanzia”. Christa Wolf e la DDR

di Claudio Musso / 21 marzo

Restare senza parola o vivere in terza persona? Impossibile la prima cosa, inquietante l’altra. Nutrirsi di una sinistra estraneità da sé stessi senza la memoria di ciò che abbiamo fatto, di ciò che è accaduto, senza la memoria di noi?

Qualcosa spinge in direzione opposta una donna tedesca della DDR, classe 1929, che dopo quarant’anni ritorna nella propria città natale, un tempo nel Terzo Reich e ora in Polonia, abbandonata alla fine della guerra di fronte all’avanzata dell’Armata rossa e mai più rivista. Il viaggio più volte rimandato nei luoghi sommersi dell’infanzia incalza la protagonista di questo romanzo in un tentativo di verifica della memoria. La quale, inerme di fronte all’assalto dei dettagli che proliferano negli occhi e nella mente, fornisce stupefacenti minuzie sui suoi anni giovanili vissuti all’ombra della croce uncinata. Ne risulta una fitta trama narrativa in cui, accanto a quello realmente intrapreso in Polonia, si intrecciano due viaggi figurati: il primo a ritroso nel tempo, nei ricordi di colei che narra i propri anni hitleriani, il secondo nel presente della protagonista, oramai una scrittrice nota, riformata dall’esperienza socialista, mentre redige il proprio manoscritto autobiografico negli anni Settanta. Passato e presente dunque si fronteggiano, e la guerra e la coercizione diventano il riflesso della funesta tendenza della storia a ripetersi. Lo dimostrano i continui rimandi di Wolf al presente della scrittura, dal conflitto israelo-palestinese all’aggressione Usa in Vietnam, dalle esecuzioni del golpe militare in Cile ai sogni inquietanti in cui uomini senza volto irrompono costringendola a scrivere cose gradite al partito. Episodi che, certo, non relativizzano e indeboliscono il passato tedesco, ma stigmatizzano un unicum di violenza le cui propaggini toccano ancora l’oggi.

Trama d’infanzia viene pubblicato nel 1976 nella DDR e si configura subito, nonostante il Muro di Berlino, come “il romanzo tedesco” che parla alle due Germanie, un testo che permette a molti lettori di ritrovarsi nelle situazioni descritte e attuare un confronto individuale e un dialogo con i propri figli. Ma la Christa bambina – costretta, come tanti, a farsi nazista – appare talmente estranea, altro da sé, alla Christa adulta – oramai una delle voci più autorevoli della DDR – da scegliere per lei un altro nome: Nelly. Riflette la scrittrice:

«Perché è difficile ammettere che quella bambina – tre anni, indifesa, sola – è per te irraggiungibile. Non solo quarant’anni ti separano da lei; non solo ti è d’impedimento l’inattendibilità della tua memoria, che lavora isolando spezzoni e il cui compito è: dimenticare! Falsificare! La bambina è stata abbandonata anche da te. Innanzitutto dagli altri, certo. Poi però anche da quell’adulta che ne è sgusciata fuori, riuscendo a farle via via tutto ciò che gli adulti fanno ai bambini: se l’è lasciata alle spalle, l’ha spinta da parte, l’ha dimenticata, rimossa, ripudiata, rimodellata, falsificata, viziata e trascurata, se n’è vergognata e ne è andata fiera, l’ha amata in modo sbagliato, e in modo sbagliato l’ha odiata. Adesso, benché sia impossibile, vuole conoscerla».

A ben guardare, ci sono tante Nelly – tre – quanti sono i viaggi intrapresi dalla protagonista: la Nelly narrante usa la seconda persona singolare per rivolgersi alla Nelly scrittrice, che redige il testo e ricorda la sua infanzia, mentre utilizza la terza persona singolare quando parla della Nelly bambina, a conferma di un “io” diviso, prima e dopo la guerra. Solo così, prendendo le distanze da quella che è stata, l’autrice prova a ottenere con la parola scritta l’unificazione del proprio “io”. Refertando l’autoesilio di Bachtin necessario all’autoanalisi e rispondendo finalmente alla domanda di Neruda su quando la farfalla si deciderà a leggere ciò che è scritto sulle proprie ali, il proprio ieri, mentre è in volo. Date queste premesse, la nuova edizione 2021 di Edizioni e/o, nella solida traduzione di Anita Raja, proposta a dieci anni dalla scomparsa di Christa Wolf, è un’occasione dunque preziosa per indagare un testo chiave, meno noto al pubblico italiano rispetto a Cassandra o Medea: qui la centralità del passato, che per Wolf occorre sempre ripensare, si interseca con le riflessioni sulla propria esperienza di membro partecipe della DDR.

Wolf da sempre reagisce con la scrittura a situazioni di disagio e di inquietudine. A provocarle non è solo la sensazione di aver vissuto, da bambina, in un’altra Germania, ma anche l’esperienza adulta di un antifascismo obbligatorio, richiesto come prerequisito, che ormai è automatico, scontato, e poi il diffondersi di bande xenofobe e razziste, che conservano le foto dei nonni in uniforme nazista come eroi. Quella della scrittrice è un’energica presa di posizione contro l’estetica promossa dalla DDR: un superamento del passato che vede i nazisti e i loro eredi sempre negli altri, quelli della Germania Ovest, ignorando che il consenso di massa ottenuto da Hitler non si limitò a una sola parte del paese. Il contesto è quello di un presente ideologizzato e paralizzato in cui risuonano accenti da anni Trenta, caratterizzato dalla preoccupazione per il futuro, dalla sensazione di procedere su un sottilissimo strato di ghiaccio, dalla paura che una qualsiasi grave crisi possa far precipitare nuovamente l’umanità nella barbarie. Sono, questi, i molti fiumi carsici all’origine di Trama d’infanzia. E che, a ben guardare, attraversano il nostro presente.

L’opera di Christa Wolf si è assunta molto spesso il compito di individuare e discutere le problematiche del proprio paese per migliorarlo dall’interno, in un dialogo sempre aperto tra scrittori e lettori. Ne è un esempio Il cielo diviso del 1963, un testo ambientato nell’estate del 1961 nel quale, ancora prima che il Muro divida e orienti psicologicamente verso due ideologie opposte i membri di uno o dell’altro sistema, la spaccatura attraversa la giovane coppia tedesco-orientale protagonista del romanzo: l’insegnante Rita, come Wolf, sceglie il socialismo della DDR dove tutto è «calore e intimità», mentre il chimico Manfred, come molti connazionali, fugge a Berlino Ovest, dove spera di potersi realizzare professionalmente. I lettori di allora potevano ritrovare nelle vicende raccontate molti episodi vissuti, ma anche una cronaca onesta, che non celava asperità e dissonanze, sia del socialismo reale che del reale socialismo, quello vissuto quotidianamente a est del Muro, minato, oleografia a parte, da burocrazia di partito e dogmatismo scolastico.

ll romanzo successivo, Riflessioni su Christa T. del 1968, è il racconto attraverso lettere, diari e tentativi letterari della parabola esistenziale di un’amica di Wolf prematuramente scomparsa; molti avranno ritrovato in quella storia marginale la propria difficoltà di dire “io” nel piatto conformismo ideologizzato di una creatura problematica, che Wolf non esiterebbe a definire singolare, nel duplice senso di “limitato”, ma anche di “atipico”. Christa T. infatti non si sente solo limitata dal sistema DDR di fronte al quale naufragherà, prima con un lento morire interiore e poi nel letto di un ospedale, ma marca la sua atipicità, di cui il testo fornisce ricchi esempi, con la propria condotta. La diagnosi ufficiale è leucemia, ma in realtà Christa T. soffre di DDR. Il suo corpo si fa sismografo delle cesure che segnano il blocco sovietico tra gli anni Cinquanta e Sessanta: deperisce infatti nel giugno 1953, durante la rivolta degli operai edili di Berlino Est, e si aggrava nel 1956, durante i moti ungheresi, entrambi schiacciati dall’Armata rossa; sono queste repressioni che determinano un primo sussulto di fede negli intellettuali come Wolf. Se poi si aggiunge che il testo esce in pieno 1968, quando sono ancora percepibili l’azzeramento della vita culturale della DDR dopo l’XI plenum del partito unico e il soffocamento della Primavera di Praga – questa volta anche con il supporto delle milizie della DDR, fatto che incrina ulteriormente la fiducia nell’apparato –, è chiaro che scrivere significa riesaminare le proprie convinzioni non sul socialismo quanto sulle terre destinate ad accoglierlo.

Tornando a Trama d’infanzia, Wolf si impegna a rivivere il proprio passato, attraverso la sua famiglia, come si sfogliano le pagine di un vecchio album fotografico. Mette sé stessa al centro della riflessione, non reprime i ricordi ma ce li consegna nello stesso disordine con cui vengono catturati, conferendo al racconto una struttura polifonica di rara complessità. Accanto alle sue manifestazioni più violente e appariscenti, riaffiorano – qui sta l’originalità del testo – interi spaccati della quotidianità del nazismo osservati attraverso la condotta interiore del singolo. Il romanzo fotografa un popolo di spettatori, presenti ma altrove, che, tra paralisi della curiosità e servilismo, sono complementari alla dittatura, cancellano chi sono stati e affermeranno in seguito di non ricordare più nulla. Ci troviamo di fronte a pagine che Wolf verga dopo profonda riflessione e che, in bocca alla scrittrice più in vista della DDR, rivelano un certo coraggio: nel libro compaiono per la prima volta in letteratura dettagli sulle incursioni, nelle case dei profughi terrorizzati, dei soldati sovietici che ne violentano le donne, e si torna a parlare di “fuggiaschi” e non di “evacuati” per chi come Nelly deve arrestare il proprio tempo interiore e dire a sé stessa: «Ci rivedremo a Filippi». Un magma narrativo che vede il singolo lacerato, anche dopo il nazismo, da un collettivo dispotico e occhiuto, e una scrittrice che – il richiamo a Ingeborg Bachmann è fortissimo – ha la mano bruciata ma non si sottrae a descrivere la natura del fuoco, sfiorando l’utopia di una libertà interiore.

«Ti immagini: la sincerità non come un isolato stato di forza, ma come obiettivo, come processo con possibilità di avvicinamento, a piccoli passi, a un terreno ancora sconosciuto da cui sarebbe nuovamente possibile parlare in modo nuovo e oggi ancora inconcepibile, con facilità e libertà, apertamente e lucidamente, di ciò che è; quindi anche di ciò che è stato. Dove perderesti l’abitudine devastante di non dire esattamente quello che pensi, di non pensare esattamente quello che senti e realmente intendi. E di non credere a te stessa, nemmeno per le cose che hai visto. Dove le pseudo-azioni, gli pseudo-discorsi che ti minano diverrebbero superflui e al loro posto subentrerebbe lo sforzo di essere esatti».

 

(Christa Wolf, Trama d’infanzia, trad. di Anita Raja, Edizioni e/o, 2021, 528 pp., euro 13.90, articolo di Claudio Musso)