Libri
La fiaba di un mondo umano, troppo umano
“La fiaba nucleare dell’uomo bambino” di Hamid Ismailov
di Giuseppe Maria Marmo / 23 maggio
La paura indeterminata, quella che tormenta e stringe il cuore, è un sentimento ineluttabile che schiaccia qualsiasi vita. Un memento mori necessario a non dimenticare la sostanziale tragedia dell’esistenza: perché dalla vita, per quanto bella e fiabesca possa essere, non si esce vivi. Eržan, il protagonista di La fiaba nucleare dell’uomo bambino, romanzo breve scritto da Hamid Ismailov (Utopia Editore, 2021), lo ha compreso bene. In lui la paura è una presenza constante che «si manifesta all’inizio con un tremore alle ginocchia, poi invade il plesso solare come un peso opprimente che sale ancora più su, fino alla faringe, fino alla gola e che attanaglia il corpo paralizzandolo». Un’angoscia che si fa sempre più definita, che prende colore fino a diventare rabbia nei confronti di un destino tanto incomprensibile quanto inevitabile. Un atto di resistenza contro quel fluire esistenziale che non è altro se non il frammento di una trama più ampia.
La fiaba nucleare dell’uomo bambino è un libro fuori dal canone contemporaneo che pare rifarsi ai fasti di una letteratura ormai remota. Un racconto stimolato dall’eco delle fiabe popolari ma gravido di ombre, incubi e pericoli. Un espediente retorico ben congegnato utile a rivelare attraverso una scrittura poetica e suggestiva l’inevitabile incombenza umana. La tragedia di una fine preannunciata in cui anche il lettore suo malgrado scivola incosciente.
Il narratore del romanzo incontra su un treno un bambino di dieci o dodici anni di nome Eržan che suona divinamente il violino. Incantato dalla bravura di un così giovane prodigio gli si avvicina per porgli delle domande. Da questo incontro ha inizio il racconto, che si divide in tre atti e che fra mito e realtà ripercorre la storia di Eržan, che scopriamo avere ben ventisette anni.
Cresciuto nel villaggio di una stazione di transito circondata dalla steppa kazaka e composto da solo due case, Eržan – coccolato dai nonni, dagli zii e sempre in compagnia di Ajsulu, amica di giochi e sua promessa sposa – ha avuto una vita abbastanza serena, nonostante le periodiche esplosioni che sconvolgono la naturale routine del paesello. Queste deflagrazioni provengono dalla Zona: una parte del territorio kazako in cui l’Urss (in piena guerra fredda) svolge degli esperimenti nucleari.
Durante una gita scolastica avviene la complicazione, il momento topico di qualsiasi fiaba: Eržan non resiste alla tentazione di fare un tuffo nel Lago Morto, uno specchio d’acqua fermo e cristallino nato dalla voragine di una detonazione. La sua vita da quel momento in poi cambia per sempre. Il giovane protagonista smette di crescere mentre vede tutti superarlo in altezza. Si sente schiacciato, non riesce a comprendere come sia possibile vivere per sempre in un corpo di bambino. Eppure qualcosa della sua vicenda personale gli ricorda una leggenda raccontatagli da Petko, il bulgaro che gli ha insegnato a suonare il violino.
Per Eržan il destino pare seguire le orme del mito. Le numerose cronache popolari che hanno in qualche modo incrociato la sua vita sembrano parlare di lui, e la musica comincia ad avere un ruolo fondamentale: non più un divertimento ma una sorta di necessità attraverso cui esorcizzare i mali. Il suono del suo violino diviene il contenitore di tutte le angosce umane, così come il corpo minuto di Eržan non è altro che il luogo in cui convergono le storture del mondo.
Nel romanzo le tragedie collettive intersecano e contagiano la storia individuale del protagonista. Come in tutte le fiabe il particolare si fa tramite per conoscere l’universale, la narrazione però ci trasporta nella più drammatica delle realtà possibili: quella che viviamo, in cui anche gli eventi che non sembrano dipendere dall’uomo sono invece sempre «umani, troppo umani».
Ismailov narra di un destino segnato dalla violenza della storia attraverso un racconto atemporale, scandito solo dal ritmico sferragliare meccanico del treno; come a voler mischiare il tempo del progresso, dell’acciaio e del metallo, al tempo del mito, della magia leggendaria e della spietata forza del fato. Perché, sostiene lo scrittore uzbeko, l’unico modo per provare ad avvicinarsi alla vita, per provare a spiegarla, è farne un calco attraverso l’arte: l’unica dimensione umana in grado di riprodurre e allo stesso tempo sradicare, anche se per un solo istante, l’ineluttabilità del mondo che piega tutto intorno a sé.
(Hamid Ismailov, La fiaba nucleare dell’uomo bambino, trad. di Nadia Cigognini, Utopia Editore, 2021, 128 pp., euro 17, articolo di Giuseppe Maria Marmo)