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L’ESEMPLARE RIUSCITO E LO SCARTO
A proposito di “La camera oscura di Damocle” di Willem Frederik Hermans
di Claudio Musso / 18 gennaio
Nel 1940 un giovane olandese, dalla vita familiare lastricata di inciampi, passa le proprie giornate dietro il bancone di un negozio di sigari dove si sviluppano anche rullini fotografici, nel tentativo, privo di entusiasmo, di fare qualcosa. Nel perimetro domestico ci sono la poco avvenente cugina, ora sua moglie, che affonda le mani negli incassi dell’attività per godersi la vita alle spalle di un marito diafano, e una madre confusa che ha fatto fuori il padre e che gira per casa, spesso di notte, avvolta da un lenzuolo per spaventare gli altri. Certo non proprio una vita idilliaca per chi, come Henri Osewoudt, il protagonista di questo romanzo, deve confrontarsi da tempo con l’essere non del tutto uomo, per giunta senza particolari qualità, agli occhi degli altri e, in fondo, anche dei propri. La sua bassa statura gli impedisce infatti il servizio militare e, nella mentalità degli anni Quaranta, l’accesso alla virilità, a cui si aggiungono suo malgrado altri difetti come il viso perennemente glabro e una vocina acuta da castrato. Non stupirà dunque se qualcuno, nel corso di questo racconto, lo farà travestire da suora infermiera per fargli passare indenne i blocchi militari.
La successiva occupazione nazista dell’Olanda diventa per Osewoudt un’opportunità per sfuggire alla routine e al solito sé stesso. Quando infatti un giorno entra nel suo negozio un tale Dorbeck, misterioso membro attivo della resistenza, le cose prendono un altro corso. Quest’ultimo somiglia in modo impressionante al protagonista, «come un negativo di una foto è uguale al positivo». Dorbeck chiede a Osewoudt – con quella voce «sonora come una campana di bronzo» che dà l’idea di una sveglia che squarcia il torpore nel quale vive il tabaccaio ma rimarca anche la differenza di mascolinità nonostante la somiglianza fisica – di sviluppare alcuni rulli fotografici che conterrebbero informazioni sui nazisti. Ed è questa la prima delle molte missioni che nel tempo vengono affidate a Osewoudt con messaggi spesso confusi e farraginosi che restituiscono al lettore un’immagine meno eroica e molto improvvisata della resistenza olandese.
Grazie a questo incarico il protagonista esce da una vita ai margini e si mette nei panni di un altro sé, un altro in cui gli si dice di essere. Segue infatti ciecamente gli ordini di Dorbeck perché questi rappresenta il mondo dell’attività, del dominio e dell’avventura che Osewoudt desidera fortemente per ragioni che poco hanno a che fare con il patriottismo. Compie sabotaggi, depistaggi e delitti – che stupiscono per la freddezza e l’abilità dimostrate, data la totale impreparazione – dei quali conosce le motivazioni, ascrivendoli a una generica banalità del bene che richiede il suo contributo. Si comporta insomma come un vero uomo mandando così in frantumi la sua precedente immagine.
In un primo momento si ha l’impressione che Osewoudt agisca come un automa, come un prolungamento di Dorbeck. Quest’ultimo appare quasi una sorta di esorcista dell’io inerme del protagonista, una persona di cui non si può più fare a meno, pena la rinuncia a questa nuova esistenza a contatto con il rischio e a una virilità recuperata. In un secondo momento all’interno delle vicende narrate, ricche di incontri e scontri, avventure, inseguimenti, tradimenti, scambi di persona, il partigiano vero agisce freddo e spietato e quello per caso esegue i compiti assegnati dall’altro immaginandosi già un paio di decorazioni militari una volta finita la guerra. Tuttavia, benché le operazioni avvengano parallelamente, per tutti i personaggi del romanzo – tranne che per il lettore che osserva gli avvenimenti solo attraverso la visuale e la verità di Osewoudt – è solo uno ad agire, data la forte somiglianza, lo stesso che compare sui giornali e sullo schermo dei cinema con tanto di taglia. A complicare poi l’intreccio contribuiscono due fatti: in primo luogo nessuno, tranne il protagonista, ha mai visto Dorbeck, neanche scavando nei segreti dell’intelligence del dopoguerra; in secondo luogo la constatazione che tutti quelli che sono venuti in contatto con Osewoudt, nelle sue varie peripezie e acrobazie, sono finiti nelle mani del nemico tedesco e giustiziati. Ne consegue che, mentre il protagonista ci racconta il suo impegno nella resistenza, con fatti circostanziati e con tanto di interrogatori della Gestapo in quanto in cima alla lista dei ricercati, il mondo intorno a lui lo considera invece un traditore che, protetto dai tedeschi, si insinua nelle cellule partigiane per stroncarle.
In questo romanzo del 1958, pubblicato ora per la prima volta in Italia da Iperborea con la traduzione di Claudia Di Palermo, Willem Frederik Hermans, figura di spicco della letteratura nederlandese, usa la guerra solo come pretesto, come sfondo dal quale raccontare un’esistenza, quella di Osewoudt. Questa viene sottratta all’arbitrio del singolo, trasformata nel suo contrario e infine condannata per ciò che non ha fatto con la messa in dubbio delle proprie verità. Ci troviamo dunque di fronte a un testo «innamorato del reale e allo stesso tempo sedotto dall’improbabile e dalla stranezza» – nelle parole di Milan Kundera –, che si presenta come metafora di un individuo che, gettato nel mondo, compie azioni assurde che in ultima istanza gli si ritorcono contro. E come risuona profetico quel brano letto a scuola da Osewoudt nell’ilarità generale:
«Per giorni vagò con la sua zattera, senza bere. L’acqua dell’oceano era salata e lui moriva di sete. Odiava quell’acqua che non poteva bere. Ma quando la zattera fu colpita dal fulmine e prese fuoco, raccolse con le mani l’odiata acqua per cercare di spegnere l’incendio!»
Quando Osewoudt passerà da prigioniero dei tedeschi a prigioniero degli Alleati, benché invochi il nome di Dorbeck e il suo intervento a dirimere la questione, prova «l’impressione di vivere in un altro mondo in cui nessuno mi può credere». Il disorientamento è dunque destabilizzante per chi ha aperto la camera oscura non solo del suo retrobottega per sviluppare rullini contro i tedeschi ma anche del proprio animo per rendere realtà il suo nuovo io. Come destabilizzante è essere un novello Damocle che, vestiti i panni di un uomo più forte – in fondo dell’uomo che ha sempre voluto essere –, sente la minaccia della spada appesa sopra la propria testa quando la ricerca dell’onnipotenza, quasi nietzschiana, è strettamente connessa con l’autodistruzione.
Le letterature si parlano. La vita è quella che è, ci suggerisce Hermans, inutile dibattersi o ribellarsi a una sorte dai meccanismi incomprensibili (in altri testi dall’autore definiti “sadici”) di cui si è prigionieri con lacci che stringono quando si tenta di scioglierli e dove «tutta la lotta è un viaggio nell’oscurità dove il senso delle cose svanisce», sempre nelle parole di Kundera. Inoltre sembra che la verità sia solo una questione di interpretazioni e di combinazioni casuali di dettagli, come i numerosi faldoni pieni di fogli volanti a carico che Osewoudt si vede sbattere in faccia durante gli interrogatori. E la verità degli altri, del tutto arbitraria ma accettata come una colpa, richiama quella che troviamo nelle vicende di Karl Rossmann in America di Franz Kafka: il protagonista del romanzo prima viene licenziato in tronco con accuse che proliferano impazzite, incapace di difendersi, e poi diventa schiavo a casa di Delamarche, incapace di ribellarsi.
Il romanzo ci introduce in un’atmosfera generalmente fredda e distante nella quale la presenza nazista tra la popolazione non viene percepita come un corpo spurio ma come parte integrante di una nuova quotidianità che va per conto proprio, elemento che rimarca da parte di Hermans il paradosso olandese durante la Seconda guerra mondiale. Il narrato è brillante e punteggiato da personaggi dinamici e da eventi che si susseguono rapidamente con un ritmo talmente veloce da non lasciare tregua al lettore. Hermans apre le proprie pagine dentro la testa di Osewoudt perché è lì che avviene tutto, è lì il deposito da cui partono i binari sui quali corrono le vicende, il crocevia in cui si confondono colpa e innocenza, verità e inganno, il punto cieco in cui il protagonista decide di essere come Dorbeck, chiede la sua ammissione all’umanità, benché questo sia: «Più o meno quello che succede nelle fabbriche: ogni tanto esce un prodotto con un difetto, allora ne fanno un altro e scartano l’esemplare malriuscito… Solo che io non sono stato scartato, pure se difettoso ho continuato a esistere. E non me n’ero mai reso conto, finché non ho incontrato Dorbeck. Allora ho capito. Ho capito che lui era l’esemplare riuscito, che a paragone di quell’uomo non avevo motivo di esistere, e l’unico modo per rendermi accettabile era fare per filo e per segno come mi diceva. Ho fatto tutto quello che mi ha chiesto, ed è stato parecchio».
Questo testo è una psicomachia senza requie. Perché saremo sempre dibattuti dal dubbio se Dorbeck sia esistito realmente o solo nella testa di Osewoudt. Ancora oggi la critica si interroga e si divide su questo punto, sottolineando elementi a suffragio di una o dell’altra tesi. Ma concentrarsi troppo sul primo personaggio ci fa dimenticare il secondo. Nel testo, difficile non coglierlo, ribolle infatti sotterraneo – a conferma delle molte riflessioni che questo romanzo suggerisce, aldilà della sua patina thriller – un tema molto moderno: l’identità di genere, quella di chi è imprigionato nel proprio aspetto da tutta la vita, un aspetto dal quale vuole scappare. E forse serve a poco chiedersi: Dorbeck, dove sei?