Libri
Donne, uomini, bestie e città invisibili
Brevi appunti a margine di “Qualcosa sulla terra” di Davide Orecchio
di Pietro Bocca / 30 gennaio
«L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n’è uno, è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio».
Italo Calvino, Le città invisibili
Ci sono due città elementali visibili, e più che visibili. Un asse verticale che unisce l’acqua al fuoco, l’abisso al braciere; una città che sprofonderà nel mare e un’altra che verrà bruciata da piromani disperati. E queste città, che sono e non sono l’Italia, che sono e non sono Venezia e Roma, non possono avere nomi: sono agglomerati di palazzi scarnificati e città-mondo, metafore friabili dell’abitare, all’interno delle quali un esercito di non-playable-characters e fantasmi corregge le proprie aspettative di vita a fronte di spese insostenibili e marciapiedi desertificati. Sono città in cui c’è stata una pandemia, c’è una pandemia, ci sarà una pandemia – dove la Storia si rispecchia nelle storie, e le storie sono semplici, perché gli esseri umani sono semplicissimi.
In una di queste città, nella città bruciata, nella «città che s’incendia, pazza per l’odore del fuoco» si muove il corpo lirico di Davide Orecchio, fra le voci più rilevanti della contemporaneità letteraria, che provando a smaterializzarsi cerca di “esistere” transitivamente una di queste storie semplici di umani semplicissimi; cerca di dare vita a un non-detto, di strappare dalla gola cadaverica di un corpo femminile inerte – perché bruciato – tutti «i pensieri negati dal mondo alla donna», e lo fa in un lampo, in un racconto “lungo” che si affida a un punto di vista ab inferis (a tratti à la Mario Luzi e a tratti à la Citizen Kane), un punto di vista infernale che si traduce in uno sguardo verso l’alt(r)o inteso come salvagente anulare. Qualcosa sulla terra: ma dove bisogna guardare? Mi sembra che la risposta di Orecchio sia chiara: ci si deve guardare in faccia, scendere di casa, magari ancora con «gli zigomi feriti da una maschera di protezione» – ogni cosa perde il suo nome proprio: città, scrittori-poeta, social network divenuti teche d’esposizione –, e scendere di casa per trovare l’Altro, per chiedergli la sua storia. Per sapere dove sono scappati i suoi gatti quando è stato ricoverato in ospedale d’urgenza e non c’era nessuno che chiudesse la porta; i suoi gatti che un nome ce l’hanno.
C’è bisogno di un (ir)realismo creaturale, di una militanza del sentimento, in questo pianeta Terra dell’antropocene. Questo, Orecchio l’ha capito: c’è bisogno di un’idea di vita che sia dignitosa, c’è bisogno di posare lo sguardo su palazzi fatti di cartapesta e chiedersi quando crolleranno, e poi di farsi più stretti; di fare comunità. Di parlare con gli ectoplasmi che si aggirano per il quartiere con un lutto sulle spalle. Di operare a ritroso per creare una genealogia dell’insignificanza – e cambiare così prospettiva, mettersi nei panni, nel pelo, nei problemi di bestie (umane e non) che vivono. Che rispondono con la carne al nostro presente liofilizzato, già Storia prima che storia, in cui non sappiamo più che nome dare alle cose. In questo tono immediato si riassume il confine sottile fra un sentimento della fine del mondo, demartiniano, e una speranza che rema al contrario.
Qualcosa sulla terra: Bianca e Gilberto. Ma Bianca e Gilberto chi sono? Chi può garantire per loro? Chi li ha notati quando respiravano a fatica nei loro piccoli appartamenti, colpiti da un Coronavirus mai nominato? Chi ricorderà i loro nomi in un domani inconoscibile e reso frammento? A quattro domande risponde una sola parola: nessuno. Bianca e Gilberto non sono nessuno, se non una lapide e un cognome sconosciuto sul citofono; e, allo stesso tempo, sono l’Altro. Orecchio sceglie di scriverne l’elegia antimediale, antiletteraria, schivando il pericolo implicito del patetismo (al quale io, invece, mi sottraggo a fatica) per dare vita a un testo che è complesso da posizionare in una scatola precisa: topografia del fantastico, reportage impossibile, scheggia di autofiction, corsa a ostacoli, invocazione, evocazione, cartone animato, favola, nosografia del presente, tragedia periferica – ogni cosa vicina a ogni cosa, a seguito di un’implosione che si manifesta nell’anacoluto, nell’involuzione morfosintattica, e poi nella ripetizione della parola e nel suo dispiegamento improvviso, nella paratassi sincopata; nello uàgana uàgana, verso diabolico dei gabbiani che dal cielo si proietta sulle piazze svuotate da un’apocalisse senza palingenesi.
«Fare qualcosa, / qualcosa / fare / nell’alto, nel / basso. / Qualcosa, sulla terra»: di nuovo una verticalità, una linea che congiunge terra e cielo, nell’esergo di Celan che, insieme a due versi della compianta Patrizia Cavalli, introduce la materia del racconto; ma non si intuisce ancora a pieno quel tema vagamente escatologico che Orecchio lascia trasparire in controluce lungo tutto il racconto. Nella prima e nella quarta sezione della struttura tetrapartita del racconto (una struttura-canovaccio, sbilanciata, e proprio per questo efficace) ci sono degli avvertimenti, delle preoccupazioni, che si esprimono prima attraverso la parola controllata di Orecchio e, solo in chiusura, tramite la parola impossibile di Bianca, impossibile perché sotterrata, e incenerita. In quest’inquietudine, che appartiene a chi vive tanto quanto a chi è morto, c’è un presagio del timore che suscita il nostro presente; la percezione di una discesa con un guasto ai freni. Ma è anche vero che sembra bastare un grido, una lotta, o un alleato inaspettato, per discutere da capo i termini del nostro esistere – un esistere transitivo («Lei esisteva me e io la esistevo»), come dicevo all’inizio –, per scoprirsi più uniti di fronte al «cadavere di una detonazione» che è la postframmentazione odierna.
Qualcosa sulla terra: noi – e, solo in seconda battuta, lo scrittore che ci descrive.