Libri
Fantasmi romani, ieri e oggi
A proposito di “Diario di un’estate marziana” di Tommaso Pincio
di Niccolò Amelii / 13 febbraio
Diario di un’estate marziana di Tommaso Pincio, uscito per Giulio Perrone Editore proprio sul finire dell’anno che ha celebrato (seppur un po’ in sordina) il cinquantenario della morte di Ennio Flaiano, è un testo difficilmente catalogabile – non è una biografia, non è un «medaglione», non è un ritratto –, mosso, più che dall’andamento lungo e felpato dell’indagine, dal passo cadenzato e timido del corteggiamento, dell’avvicinamento cauto e sussultante. La struttura portante del testo è affidata a una divagazione saggistica che però assume cangianti sembianze diaristiche, costellata da «improvvisi» narrativi – di natura spesso aneddotica – in grado di agire come collante tra io narrante e io narrato, così come tra presente e passato. Quella di Pincio è, infatti, una flânerie non solo topografica, ma anche temporale, vale a dire un andirivieni diacronico che si dipana senza soluzione di continuità nel retroterra della mitografia romana, di ieri e di oggi, all’insegna degli umori reali e dei moti esistenziali profondi di chi quella stessa mitografia ha collaborato a metterla in scena senza però aderire davvero mai alla sua superficie brillantinata. Il Flaiano che emerge gradualmente dalle pagine del Diario è un uomo sfuggente e inquieto, che va ben oltre il personaggio, oltre la maschera che gli è stata cucita addosso – quella dell’arguto fustigatore dei costumi nazionali, pigro e indolente, ma dalla battuta sempre pronta –, e che lui stesso a volte si è sentito obbligato a indossare per rispondere alle aspettative altrui, alle pressioni culturali che premevano intorno. Pincio vuole giustamente emancipare – e alla fine ci riesce benissimo – Flaiano dalla «flaianite», ossia da quel fenomeno assai diffuso tra critica e pubblico per cui lo scrittore abruzzese viene spesso ridotto a mero caratterista, aforista, elzevirista, come se la sua intera opera artistica – teatrale, letteraria, cinematografica – non fosse altro che un di più, una ramificazione secondaria da apprezzare da lontano.
In questo «libercolo di pensieri sparsi», a metà tra digressione meta-artistica e rêverie urbana, Pincio instaura, con una prosa dinoccolata e raccolta, che fa della frammentarietà e del tono colloquiale – pur aperto a squarci di più intenso lirismo – i suoi maggiori pregi, un dialogo con un fantasma ancora aleggiante su quei luoghi – via Veneto, via Isonzo, via di Campo Marzio – che sono stati teatro di un lungo e sofferto disinnamoramento. Sì, perché Roma è l’altra grande protagonista del libro, e non potrebbe essere altrimenti. Roma è una città che puoi amare – specialmente agli inizi, quando il disincanto è ancora lontano –, ammirare, bestemmiare, ma mai capire davvero, e questo Flaiano lo aveva intuito perfettamente. Troppe facce, troppe stratificazioni storico-culturali, troppe nature differenti inglobate e poi fuse e sedimentatesi in un unico immenso coacervo urbanistico. A Roma esiste solo la storia, che si dispiega quale somma di infiniti passati. Il tempo, in una città in cui si ragiona in termini di secoli e non di ore, te lo devi inventare, carpirlo dal quotidiano affastellarsi di volti, gesti, voci per provare a imprimergli una traccia che possa definirti, almeno un poco, nella vana speranza di non essere subito dimenticato, sperso tra la folla dei senza nome, irretito da un immaginario così suadente da ammaliare persino i suoi più fieri oppositori. A Roma non esiste l’eclatante, il fuori luogo, l’assurdo, tutto è già stato detto fatto visto scritto. Proprio per queste ragioni, la capitale è il posto ideale per incubare e portare a ebollizione l’amaro scetticismo che sottende, sin dai germi inaugurali, l’intera produzione flaianea. Nonostante il rapporto di «odiamore», che negli anni si esacerberà sino a far prevalere il primo termine sul secondo, solo a Roma, assistendo giorno per giorno alla sua tanto peculiare fenomenologia – tanto più estroflessa e luccicante negli anni del boom economico, della «Hoolywood sul Tevere», della «società del benessere» –, Flaiano può trovare confermati gli assunti centrali della sua filosofia negativa, per cui la vita è un vero e proprio valzer degli errori, tutto è vanitas, ogni cosa è destinata a decadere tra l’indifferenza dei molti, i sogni fatui della gloria e della fama brillano come miraggi imprendibili.
A Roma Flaiano – forse perché la liaison con la città nasce sul terreno già dissestato di un precoce abbandono, causato dall’espulsione dal nucleo famigliare e dal conseguente trasferimento in collegio a soli dodici anni – sperimenta sulla sua pelle l’eterna diffidenza del provinciale, che non si sente mai al suo posto, come fosse un intruso illustre, un ospite non proprio benvoluto a cui è concesso apparire sul proscenio ma solamente per un rapido saluto di commiato. Ecco allora che le sue parole – acuminate, esatte, prensili – agiscono innanzitutto come schermo, come difesa, come spazio intermedio tra sé e la realtà circostante. Lo stesso umorismo flaianeo – tutto impregnato di quel «sentimento del contrario» di matrice pirandelliana – provoca sempre un riso trattenuto, che subito vira verso la malinconica presa di coscienza del dramma quotidiano che si nasconde nella sostanza delle cose, al di là delle apparenze che mistificano il volto contratto dell’umanità. Ne consegue una satira mordace, tutta pars destruens, che si sviluppa all’ombra di una visione esistenziale fondata sulla convinzione che non ci sia più nulla da costruire, nessuna parola d’ordine da difendere, alcun ideale su cui fare leva per proiettarsi in un ipotetico futuro migliore. Flaiano è, in fondo, un postilluminista, ovverosia un fatalista raziocinante che ha però smesso di credere nel progresso e anche nel potere taumaturgico della ragione. La sua ironia velata di tristezza rappresenta allora l’applicazione letteraria di una particolare postura individuale, l’estrinsecazione artistica di uno sguardo gettato sul mondo da una posizione irregolare, defilata, estranea e straniata, che gli consente di cogliere le aporie del quotidiano, il costante sfasamento tra essere e apparire, tra impotenza e desiderio, tra moralità evanescente e vaneggiamento diffuso.
Spesso in disparte, sfuggente, vittima di un’intelligenza troppo acuta, attenta a infilarsi nelle scorciatoie – così importanti nella trama del suo unico romanzo, Tempo di uccidere (1947), vincitore della prima edizione del premio Strega –, negli «strappi» del presente, negli interstizi che si aprono nella facciata falsamente agghindata del reale, Flaiano non riesce a godersi il successo, considera effimero il «protagonismo» tanto agognato dagli altri membri del demi-monde romano, soffre per le doppiezze e le illusioni di coloro che ritiene amici – Fellini, in primis. Pincio coglie perfettamente il lato più opaco e più vero – nel suo vulnus, nelle sue criticità – di un autore non ancora perfettamente storicizzato in sede critico-teorica, ma che ha compreso meglio di chiunque altro che la realtà non può farsi troppo a lungo mito, perché il mito si rivela compiutamente solo nella stasi, nella sospensione, nell’immobilizzazione dell’atmosfera e dei caratteri. Oltre il mito, dopo il mito, c’è solo farsa asfissiante, riproposizione posticcia, prolungamento patetico e demodé. Del resto, cos’altro è la Dolce vita se non un sogno tardivo che si dissolve improvviso al momento di un risveglio che si sarebbe voluto rimandare ancora e ancora?
In Flaiano – così come in Pincio (e le tangenze tra i due autori non finiscono qui) – è ben radicata l’amara consapevolezza che le cose tendono a brillare nel loro massimo fulgore proprio nel momento in cui cominciano a scomparire, soprattutto a Roma, città-set in cui lo spettacolo della vita e della morte, dell’odio e dell’amore, si confonde, si mescola, si prolunga dal palco alla platea, facendo di tutti attori, comparse, meteore; soprattutto d’estate, stagione che rappresenta innanzitutto uno stato d’animo, la fascinazione perversa per l’abbaglio più lucente, per le ore dilatate e però già apparentemente estinte, per ciò che si riverbera al tramonto, in procinto di scomparire nel torno di poche settimane.
Dall’accostamento di nuclei tematici che si sfilacciano improvvisi per poi ricomporsi e sfibrarsi di nuovo – le amicizie tormentate, le ferite sottaciute, le delusioni letterarie – viene fuori un triangolo, anzi un doppio triangolo non del tutto sovrapponibile, che però condivide lo stesso inevitabile apice, Roma: Flaiano-Passato-Roma + Roma-Presente-Pincio, restituito mediante le accensioni estemporanee di un’opera costruita con un montaggio di schegge, di flash, di aneddoti frammentari, in cui a emergere è la figura di un Flaiano umbratile e malinconico come può esserlo, per chi la ama, la fine di ogni estate. Nell’economia di questo diario saggistico-aneddotico la collisione estemporanea dei discorsi e dei registri si accompagna specularmente a un processo ermeneutico per cui la memoria – quella dell’autore, così come quella della città – diviene palinsesto composito, utile a illuminare quelle convergenze parallele che permettono a Pincio di accostarsi al fantasma di Flaiano in cauto ascolto, senza forzature o sovrainterpretazioni. Tale aderenza di vedute si esplica proprio nella capacità di entrambi gli scrittori – e chi è un affezionato lettore dell’opera pinciana lo sa bene – di cogliere il nocciolo duro della vita proprio quando essa si dà in absentia, cioè quando, all’apogeo del suo splendore, lascia scorgere in filigrana la malinconia di là da venire, il retro ombroso delle cose pronto a occupare presto l’intera scena. Sarà per questo motivo che Flaiano tanto teneva alla propria pigrizia, facendone persino un vanto, una risorsa da difendere gelosamente. Essa era per lui il modo più congeniale per sentirsi sempre in potenza, senza mai lasciarsi catturare dalle forme, rinunciando alla perfezione asfissiante del cristallo. Sfuggendo alla frenesia del fare e dell’apparire, mettendo a tacere, seppur a fatica, le proprie ambizioni, Flaiano lascia che le idee, le emozioni, i pensieri lievitino all’interno, per poi raccoglierli quando emergono in superficie, restituendoli con precisione svizzera sulla pagina, intagliata icasticamente come se le parole fossero incisioni di Fontana.