Libri
La vecchiaia e la scrittura
“Floridiana” di Emanuele Pettener
di Teodora Dominici / 1 marzo
Floridiana di Emanuele Pettener (Arkadia Editore, 2021) è un libro insolito e davvero ben costruito. Innanzitutto per via della sua trama: Tom, un facoltoso dentista settantunenne con velleità letterarie e una bellissima famiglia, ha un’incomprensione con la moglie e va via di casa, poco prima di aderire a una vacanza studio letteraria a Venezia.
Poi, perché ha dei personaggi anziani. Ma non come in certa letteratura dei paesi nordici, in cui aleggia una diffusa aria di mestizia: qui c’è un’anzianità travolgente, un gruppo di uomini e donne settantenni con pensieri, desideri e impulsi vivacissimi, impegnati a correre dietro a una vita ancora colma di sorprese, domande, imprevisti, e a parlarne con sagacia di fronte a un drink o a un’insalata di aragosta in uno dei ristoranti di Ocean Boulevard (siamo a Boca Raton, Florida).
In ultimo, per la lingua. Il lettore è portato per mano e talvolta trascinato dall’eloquio colto, brillante e ogni tanto gustosamente sboccato di Tom, che narra la vicenda in prima persona. Brio e arguzia animano le memorie, gli sfoghi e gli excursus del protagonista, impegnato a saltare tra il presente – la lite con l’adorata moglie April, critica cinematografica e docente universitaria con la passione dell’orto – e una serie di flashback riguardanti la sua vita, la nascita del loro amore, i figli, la prima casa, la carriera, le amicizie importanti, le letture, e soprattutto il sogno di diventare scrittore. Quella dolce fantasia e spina nel fianco così pressante da averlo spinto a frequentare un corso di Creative Writing, a inviare decine di plichi contenenti racconti alle riviste letterarie più in vista, a raggiungere la sudata pubblicazione della prima e ultima raccolta, e per l’appunto anche a litigare con April.
«Le stavo leggendo il mio ultimo racconto e, a metà della scena cruciale, lei mi domanda ex abrupto: “Ti sei ricordato i fagiolini?”».
Ecco il motivo del dissidio: il narcisismo dello scrittore spazzato via in una frase dal pragmatismo della consorte. È tragicomico, e ben raccontato, il groviglio di crucci, tensioni, gelosie e rimpianti del protagonista, la cui psicologia si srotola come un coloratissimo arazzo lasciandoci esplorare un’età molto trascurata in narrativa. Ed è davvero una boccata di ossigeno rendersi conto che non tutto si esaurisce nella giovinezza, anzi.
Rende godibile la vicenda un montaggio ad arte, dove episodi del passato e parentesi si incastonano proprio al punto cruciale del momento presente: con un’alternanza perciò di fatti che si inanellano interrompendosi e proseguendo nei punti di maggior tensione narrativa.
Frequenti citazioni letterarie, giudizi mordaci su grandi scrittori (Carver e Márquez, per citarne solo un paio) strizzano l’occhio al lettore, ponendolo di fronte a un gioco di specchi: nel protagonista Thomas Giannini, italoamericano di New York figlio di un immigrato palermitano, si riflette proprio l’autore, Emanuele Pettener, nato a Mestre e professore di Lingua e Letteratura italiana alla Florida Atlantic University di Boca Raton. È facile immaginare che le dichiarazioni di amore nei confronti della parola letteraria provengano dall’autore, che presta la voce al suo personaggio.
«Mi era concesso un futuro? O almeno un presente in cui quella che sentivo la noce della mia identità, parte sostanziale di me, anzi forse proprio me per intero – la scrittura – non fosse considerata un hobby? Non è terribile che chi ti ama – e tu ami per giunta – consideri hobby l’unico modo in cui tenti di esprimere quell’infinitesima cellula originale che, avvolta da mille sfoglie sociali e familiari, possiamo chiamare definitivamente io? Anche qualora l’effetto di questo tentativo sia solo un balbettio, questo balbettio è più vero di tutte le convenzioni, gli alibi, le maschere morali, le imitazioni volute o meno che vi affastelliamo attorno […] – ecco, scrivere è il tentativo in extremis di non dar più così tanta importanza al mondo, a quello che il mondo pretende da noi, e squarciare a una a una le maschere fasulle che ci siamo appiccicati per accontentarlo, blandirlo, servirlo – e cercare invece quel nocciolo profondissimo di verità che sta dietro tutto e dentro noi, quel diamante purissimo, quel balbettio».
Le riflessioni e le guasconate dell’attempato dentista, così vivacemente attento a ogni aspetto della vita, anche il più sensuale, si mescolano a una fine trattazione psicologica dei personaggi e di quella che è la storia di una vita, anche quando si interseca con la Storia, come nel caso della tragedia delle Torri Gemelle.
Il romanzo è molto estetico, ma anche molto divertente, e colpisce per questa lingua esuberante, rigogliosa, tesa a “cercare un effetto luminoso”. Gustosa è anche la parodia delle manie degli scrittori, sempre un po’ egocentrici e in cerca di attenzioni, come figuranti arrivati in un mondo in cui alla fine tutti, non si sa perché, vogliono diventare scrittori.
C’è molta psicologia e molta leggerezza: la risultante sembra essere che il cuore umano è un guazzabuglio. E c’è anche un velo di malinconia e di pietà nei confronti della propria vecchiaia, della vecchiaia in generale: un’età che di per sé ingenera riflessioni molto profonde e talvolta amare, pur con tutti i sensi ancora all’erta.
Una nota di pregio non indifferente, nell’ultima parte, sono le descrizioni che Pettener, nativo appunto di Mestre, dedica a Venezia: dalle calli riecheggianti di voci al cantico di davanzali che sovrastano la laguna, dai tavolini assolati dove turisti e studenti sorseggiano cappuccini mentre i gatti passeggiano pigramente tra le loro gambe, sino ai richiami dei portuali e dei gondolieri e all’eleganza sognante dei palazzi color oro antico e rosa che si specchiano nei canali, tutto fa pensare di trovarsi in un acquerello di Hugo Pratt, ma più moderno e caotico, facendoci per una volta guardare la nostra cara vecchia Italia con gli occhi incantati di uno straniero.