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Daniel Veronese al Napoli Teatro Festival

di Francesco Bove / 19 giugno

Il doppio Cechov, presentato al Napoli Teatro Festival, da Daniel Veronese presenta una struttura talmente ben definita che è difficile non ravvisarla sin dall’inizio. Scenografia ridotta all’osso, una messa in scena essenziale e verista, incentrata unicamente sugli attori e sul senso del Teatro. Con un tratto di penna Veronese elimina primi attori e protagonismi presentando, invece, una compagnia compatta e decisa, una macchina da guerra dotata sia di senso del ritmo che di padronanza scenica. Si capisce che si tratta di un Cechov anticonvenzionale a partire dai titoli, Los hijos se han dormido e Espía a una mujer que se mata, che non richiamano elementi del testo ma devono solo evocare sensazioni, un mondo che non è rappresentato. Infatti, per quanto possa essere visto come una rappresentazione di due opere di Cechov, in realtà Veronese opera una destrutturazione del testo, un tradimento per consegnare al pubblico un autore più che mai attuale e senza frontiere. Lo spettro della crisi dell’Argentina si fa sentire in entrambi i lavori ma il fallimento, la miseria, il crash non viene ostentato, nemmeno minimamente accennato. Si avverte. Tutto concorre a formare un’opera nuova, in Los hijos se han dormido, rilettura di Il Gabbiano, c’è un momento in cui Kostja Treplev, scrittore in erba, recita dei brani dall’Amleto e la madre, attrice piena di sé, gli risponde come se fosse Gertrude. Ecco, è proprio in questa linea drammaturgica definita, dove vari autori convergono in uno stesso fiume, dove la rivisitazione di un classico non significa attualizzazione o rilettura politica, dove si gioca realmente con il testo, in maniera peraltro intelligente, senza finire nei vortici intellettualistici di tanti registi contemporanei, ecco, proprio qui si presenta il miracolo del teatro! E Veronese ci è riuscito, ha sognato il teatro, l’ha indagato, è arrivato addirittura a interrogarlo, a porre lo spettatore dinanzi alla differenza radicale tra vecchio e nuovo. La madre di Konstantin, Irina, il suo compagno, lo scrittore Trigorin, ma anche il professor Serebriakov di “Zio Vanja” rappresentano il vecchio mondo della cultura, ormai ridicolo e saccente, che non è più in grado di stare al passo coi tempi ma, anzi, spegne irrimediabilmente la vivacità e la voglia di fare della nuova generazione, rappresentata da Kostja Treplev, o che ha già messo a tacere le voci contrarie di quella immediatamente precedente, come è capitato a Vanja che, nel momento del furioso litigio familiare, grida: «Sarei potuto essere un Tolstoj, un Dostoevskij…».

Ma nell’analisi di Veronese/Cechov, anche la nuova generazione, quella più arrivista e opportunista, ne esce con le ossa rotte: Nina sceglie il successo, la sicurezza, che lei scambia per amore, per finire impazzita come Ofelia; Elena, moglie del vecchio Serebriakov, innamorata in segreto del medico Astrov, finirà per vivere una vita che non vuole. Il vero amore, sembra volerci dire Veronese, non ammette compromessi, che sia per il teatro o per una donna, tutto il resto è mestiere, opportunismo, sentimento borghese mascherato d’amore. Bisogna porsi sempre dinanzi a delle domande universali e vivere il presente nel miglior modo possibile, inseguendo speranze ma senza farsi divorare dall’abitudine. Tutto questo è il teatro di Veronese, un voler uscire e rientrare dal testo spinto sia dal desiderio impellente di parlare finalmente di teatro – la citazione di Le serve di Jean Genet è magistrale – e sia dalla volontà di caratterizzare i personaggi senza ricorrere ai costumi di scena. In fin dei conti, Cechov c’è ma, a imporsi è soprattutto un lavoro sul testo e sugli attori attuale, importante e personale.

 

Los hijos se han dormido
Espía a una mujer que se mata
di Daniel Veronese

Andati in scena presso il Nuovo Teatro Nuovo di Napoli, per la rassegna Napoli Teatro Festival.