Varia
“The Suit” di Peter Brook
di Luca Errichiello / 26 giugno
Esisteva un solo teatro nero durante l’apartheid a Johannesburg. Esiste un solo ristorante di proprietà di un uomo di colore a Città del Capo. Nel 2012. “Apartheid”. “Separazione”. Ma il Sud Africa si è mai separato dall’apartheid? il Sud Africa si è mai separato dalla separazione? Il regista Peter Brook mette in scena la separazione mancata, la separazione inseparabile, nel Sud Africa. Una coppia apparentemente felice e poi il tradimento. Un marito che non può assistere a ciò che si consuma nel suo letto. Un armadio come una prigione dalla quale vedere e non vedere ogni frammento di passione adulterina. La fuga dell’amante. E un vestito lasciato a far mostra di sé su una sedia. Quel marito non potrà più separarsi da quella scena. L’amante non si sarà mai separato dalla donna. Il vestito non si separerà mai da quella casa. La presenza costante, inquietante, esigente, del vestito sarà il marchio dell’adulterio da mettere in mostra, persino da alimentare ogni sera. Non ci si può separare da ciò che ha separato. Sullo sfondo proprio quell’apartheid che ha separato gli uomini. La violenza quasi sbiadisce nella maestosità della calda voce africana di Nonhlanhla Kheswa, dolcemente colpevole protagonista femminile. Si stenta a condannare l’innocenza di una voce che canta la sua purezza e la necessità di separarsi dal rancore. C’è sempre possibilità di scegliere la grazia del perdono. C’è sempre possibilità di concedersi la sola scelta necessaria alla vittima divenuta carnefice. Giorno dopo giorno il vestito calza sempre più a pennello sulla vita della fedifraga, poi ne stringe il corpo, ne strozza il respiro. La marea della violenza dell’epoca dell’apartheid sale al pari della violenza del marito tradito. Eppure riemerge sempre, a ogni scena, un pezzo di quel sorriso, di quella dolcezza, che il popolo africano continua a somministrare ai suoi persecutori ad ogni nuovo sopruso subito. «Bisogna poter raccontare questa storia tragica senza che alla fine lo spettatore abbia l’impressione di qualcosa di negativo», sostiene Peter Brook in un’intervista a cura di J.P. Thibaudat. Obiettivo perfettamente raggiunto. The Suit insegna a soffrire con il colpevole proprio mentre si comprende la necessità di separarsi da ciò che divide, dalla violenza, qualsiasi forma essa assuma, anche se apparentemente storicamente giustificata. Lo straordinario tragico finale riesce così ad avere il gusto di una catartica pacificazione interiore dello spettatore. Attori duttili, sempre pronti a variare il tono della recitazione, riescono a farsi strada persino nella difficile interazione con un pubblico straniero, a portarlo letteralmente sul palco. Luci calde e soffuse riescono a ritrarre le sagome di amanti anche se a far da letto troviamo solo due scarne sedie colorate. Una poderosa mimica, movimenti puntualmente ricchi di tenera tensione, consentono agli attori di Peter Brook di narrare una vicenda che perde i contorni del tragico e assume quelli dell’umano, in tutte le sue espressioni. Con un sorriso ormai colmo di appassionata comprensione ci si può alla fine consapevolmente separare da ciò che inseparabilmente, monoliticamente, rimane nell’uomo: la violenza e le discriminazioni dell’apartheid esattamente come la vendetta e il truce martirio dei colpevoli di una passione amorosa andata oltre i ruoli socialmente prestabiliti.
The Suit
di Peter Brook
Andato in scena presso il Teatro Mercadante di Napoli il 23 giugno 2012.