Varia
“Il Museo delle Utopie”, regia di Giuseppe Sollazzo
di Luca Errichiello / 18 giugno
Karl Marx ha il ruolo di protagonista/accompagnatore ne Il Museo delle Utopie. Museo e utopia, antichi ideali sepolti, evidentemente, spendibili solo in un museo. C’è un fulgore scaduto nei pezzi del museo delle utopie, un giudizio che cade sui protagonisti già prima di entrare nel luogo del ricordo. Non c’è via d’uscita da un giudizio che sa di pre-giudizio, non si può che configurare un percorso solo apparentemente lineare ma, a guardar bene, circolare, tautologico. La grotta di Seiano è lunga 770 metri, ma è sfondo di una messa in scena che solo superficialmente si adatta alla sua linearità. Arcata dopo arcata si dipanano gli episodi delle utopie della storia. Mao Tse-tung canta, Karl Marx occhieggia il seno di qualche gentile donzella, Gulliver parla dell’intelligenza dei suoi cavalli, e così via, fino ad arrivare all’immagine di Giuliano Ferrara proiettata su di un immenso schermo bianco, su cui si narra l’ineluttabile sconfitta delle utopie. Non si tratta tanto di un’utopia negativa, di una distopia, benché il Grande Fratello di Orwell venga talora scomodato, piuttosto si evidenzia l’arrestarsi della fantasia, che pure era dominante in 1984. Dopo tutti i personaggi più o meno noti che si sono avvicendati nel percorso della grotta di Seiano, sembra di non poter andare oltre il volto di Giuliano Ferrara, dunque. La schiavitù si presenta come risultato consequenziale della cascata di idee che hanno travolto popoli e regnanti. La schiavitù dissimulata della contemporaneità è un approdo solido, immobile, ineluttabile. Eppure c’è nelle utopie una grandezza che tracima. C’è qualcosa che eccede la narrazione “museale” che utilizza come palcoscenico la grotta di Seiano. Qui gli utopisti sono mattacchioni, giocherelloni, senza sosta strizzano l’occhio al pubblico, parlando ai suoi schemi mentali, conosciuti, studiati, sfruttati. Le idee che hanno plasmato generazioni e direzionato la storia dell’uomo sono visibili solo in lontananza, mentre in primo piano appaiono la barba di Marx, il sorriso fisso di Mao, che riassumono macchiettisticamente i polverosi ricordi storici del pubblico medio. Le idee invisibili sono soppiantate da ciò che è immediatamente riconoscibile e dunque facilmente apprezzabile, poco importa che Marinetti divenga un allegro teatrante e che Marx sia immerso in scollature da festini di berlusconiana memoria; poco importa che, per mettere in sesto un complesso scenico in un tunnel, si sia costretti ad uno sforzo tecnico ed economico non da poco. Il testo, scarno e diretto, così come le interpretazioni degli attori, sembra porsi il fine di rappresentare gli uomini piuttosto che le idee, uomini, tuttavia, che sembrano più il risultato della macelleria culturale della seconda repubblica italiana, che gli emblemi dell’evoluzione del pensiero. Eppure forse nel titolo risiede il senso della messa in scena di Giuseppe Sollazzo: “museo delle utopie” forse potrebbe far porre la questione della tendenza enciclopedica dell’occidente che, piuttosto che analizzare o partecipare alle idee, preferisce tentare di mummificarle in corpi che parlino il suo stesso linguaggio. È quest’ultimo il linguaggio autoreferenziale di un occidente che progredisce a suon di allusioni sessuali, di stereotipi urlati, di uomini e ideali macinati e svalutati da vaghi ricordi di studi e quindi rappresentati in una sorta di allegro circo itinerante, in cui ciascuno ha vita solo per l’attimo dell’apparire in scena. Il nano vive solo della sua altezza, la donna cannone solo del suo peso, il clown solo dei suoi tristi sorrisi. Museo delle utopie o circo degli stereotipi?
Il Museo delle Utopie
di Pietro Favari
regia di Giuseppe Sollazzo
Andato in scena presso la Grotta di Seiano a Napoli il 17 giugno 2012.