Musica
[BioSong] “Amico fragile” di Fabrizio De André
di Silvia De Santis / 26 ottobre
Ci sarebbe piaciuto pensare a Faber come a un poeta maledetto, un artista oscuro e malinconico alla Kurt Cobain, uno che prende in mano la chitarra solo quando sa di non essere completamente cosciente. Invece no. Lui era uno serio, uno all’antica.
Al di là della socievolezza del carattere e della sua infinita curiosità per il mondo e per gli altri, De André quando componeva era metodico e pignolo. Nel momento di scrivere un testo, si sedeva a tavolino e convocava a sé tutte le conoscenze accumulate in anni di studio e meticolose letture che in poche ore prendevano corpo in tre, quattro strofe destinate immancabilmente a passare alla storia. Le sue canzoni venivano innanzitutto dalla testa.
Una delle poche eccezioni la fa “Amico fragile” che è con grande probabilità la canzone più intima, spassionata e per questo significativa che il nostro ci abbia regalato. Stando ai suoi stessi ricordi, una sera d’estate del ’74 il cantautore si trova con la moglie Puny ospite in un salotto borghese della costa sarda. Quando cerca di intavolare una conversazione riguardo ciò che stava accadendo in quel periodo in Italia (qualcosa circa delle affermazioni di Paolo VI sull’esorcismo e l’esistenza del diavolo), i padroni di casa lo ignorano chiedendogli invece con insistenza di cantare per loro. Di fronte a tanta ipocrita superficialità, De André decide che è troppo: si prende «una sbronza terrificante» (cit.), se ne va sbattendo la porta e si rintana nel garage di casa. Il mattino dopo Puny lo ritroverà lì, intento a finire di scrivere “Amico fragile”.
I veloci arpeggi che pizzicano la chitarra ci accolgono nell’atmosfera onirica della nuvola rossa in cui Faber è evaporato, ci guidano sul filo dei pensieri in apparenza sconnessi con cui si esprime un Io finalmente libero da ogni vincolo sociale e culturale. Eppure il cuore della canzone si lascia intuire, afferrare, ed è non solo chiaro, ma coerente con tutta la filosofia deandreiana. Sulla scia del mito e mentore, l’artista francese George Brassens, i testi dell’autore genovese lasciano spesso trapelare l’ideale anarchico, oltre al senso della lotta contro l’ipocrisia e le convenzioni sociali, espressi qui anche con toni di un’ironia quasi crudele.
I meccanismi impiegati per tradurre in canzone questa ideologia ribelle erano sempre stati sofisticati, in senso letterario. Evitando accuratamente di esprimersi in prima persona, i pensieri erano stati di volta in volta, di album in album, messi in bocca a uno dei tanti personaggi della vasta commedia umana di cui si compone la sua poetica, da quelli biblici di La buona novella ai morti della collina di Spoon River, in Non al denaro, non all’amore né al cielo. Anche le traduzioni dallo stesso Brassens o da Leonard Cohen hanno la stessa funzione di cantare con parole di altri temi condivisi. Ma qui per la prima volta i fumi dell’alcol lasciano che Faber si esponga con una sincerità nuova e unica.
De André è un borghese in rivolta, che fa del sovvertimento dei canoni il fulcro della propria vita e della propria poetica. Contro ogni pensiero del sistema, più che mai in questo testo egli decide di denunciare una classe sociale che vive fuori dal mondo, in un continuo affanno per conservarsi nei secoli, nel disinteresse per qualsiasi discussione culturalmente concreta. Il disgusto e il senso di sconfitta che ne derivano generano un testo come “Amico fragile”, dove invece la genuinità dell’amore per la musica e il sentimento di libertà che solo un artista può provare trovano un ultimo riscatto. La rivincita diventa però un sussurro interiore, il farfugliare di un ubriaco allucinato le cui parole sono molto più vere di qualsiasi discorso retorico.
(Fabrizio De André, “Amico fragile”, Volume 8, 1975, 5’29’’)