Varia
“Call Me God”, regia di Marius von Mayenburg
di Cristiana Saporito / 22 novembre
Ci sono quattro teste in questo testo. Sedici mani, quattro cuori e sciami di pensieri, che sembra complicato far convergere in un corpo funzionale, organico, perfettamente interconnesso. Poi basta ricordare che ogni individuo è un atollo di distretti, casupole e province rifugiate sotto uno stesso nome. E allora anche i quartieri drammaturgici possono formare una città in cui è bello camminare. Da seduti, per quasi due ore.
Lo spettacolo Call me God, in prima assoluta per Romaeuropa Festival al Teatro Argentina, è un affresco di carne, frutto dell’incontro di distanze, di stanze d’autori in grado di parlare attraverso le porte.
Di scrivere affluenze.
Gian Maria Cervo, Albert Ostermaier, Rafael Spregelburd e Marius von Mayenburg rovesciano in scena quattro attori (Katrin Rover, Genija Rykova, Thomas Grassle e Lukas Turtur) per raccontare un episodio che in Italia sembra non essere esistito, perché qualcosa s’impiglia puntualmente nelle maglie dei media, perché spesso c’è troppo da dire e allora è meglio dire sempre la stessa cosa.
Nell’ottobre del 2002, nell’area compresa tra Washington D.C., il Maryland e la Virginia, dieci persone furono colpite da un attacco di cecchini, furono pedine, bersagli muti e impotenti, colpevoli di orbitare in una circonvallazione da schivare con cura.
Centrate e affondate, da un occhio che sapeva scegliere e mirare senza esitazione.
Il buio offende con pugno chirurgico. E loro morirono, tra le buste della spesa, nell’odore di miscela delle pompe di benzina, in un giorno capace di confondersi tra gli altri. Il gregge di indagini portò a scoprire che tutti quegli spari provenivano da un uomo soltanto, il 48enne John Allen Muhammad, con al braccio il suo fucile di precisione e la sua voglia di vendetta. Accanto a lui un complice minorenne e un furgone forato, da cui osservare e poi agire. Sette anni dopo s’innesca la condanna, corre dentro un’iniezione letale, benedice le vene per l’ultima volta. L’uomo nero è (ab)battuto e l’America intera riguadagna il sorriso.
Qui nasce l’esperimento.
Ognuno dei quattro punti vista realizza una porzione di scrittura indipendente, imbratta un campo con le proprie parole e poi i frammenti vengono cuciti insieme, ricomposti da Von Meyenburg, regista e artefice della stesura definitiva.
L’evento riproposto non è solo teatro di se stesso, ma di un dibattito nodale sul rapporto tra sicurezza e libertà. Nessuno è certo, nessuno è al riparo, neanche nell’ovvio, nella placenta delle proprie abitudini.
La vita trema sempre, di scosse invisibili. E la pallottola è solo il punto di arrivo di uno scoppio cominciato sottopelle. L’assassino è un uomo qualunque con trascorsi militari, inasprito da un matrimonio andato a picco, dal terrore di perdere i suoi figli. E all’improvviso rinunciare alla logica, al dialogo, intercettare solo la propria paura, dar voce alla pancia e alla sua rabbia, sembra la risposta migliore. Farsi Dio per un attimo e prendersi gioco del destino che lo ha atterrato.
Quindi, se chiunque può trasformarsi in un mostro, chiunque può esserne vittima. Ma qual è la soluzione? Potenziare il controllo collettivo, se un singolo decide di bruciarlo? E a che prezzo?
La polizia si attiva con le antenne mal sintonizzate, punisce indiscriminatamente, ha fame di carnefice e finisce col sostituirsi a lui, dando origine a siparietti tragicomici, magistralmente interpretati dai quattro trasformisti in azione sul palco. La società contemporanea, schiava della notizia e della notorietà allegata, è scimmiottata con sapienza. Quindi con leggerezza e il dovuto cinismo. Da qualsiasi tragedia si può ricavare un titolo, un libro caldo di stampa, un’intervista per piangere a comando e salutare i parenti. E lo spazio non solo lo suggerisce. Ospita pluralità e contraddizioni.
Per questo è costruito come un ambiente composito, un allestimento-installazione: un display nero su cui proiettare la traduzione delle parti in italiano, quasi un’insegna, un frontespizio; un piccolo studio d’incisione; una saletta-sottoinsieme in cui registrare una trasmissione o assistere a un’esecuzione. Un altro schermo su cui le immagini lampeggiano, su cui il sangue innocente s’ingrandisce al meglio e l’esplosione risuona con orgoglio.
E poi cambi di registro continui, in cui all’ironia si mescolano indifferentemente il lutto, l’impotenza, un impasto di emozioni in contrasto, costrette a coabitare come in uno zapping. Perché non c’è un solo linguaggio, c’è il linguaggio che abbraccia i suoi contrari. La musica irrompe e sottolinea i movimenti e la voce di Beyoncé non stride nemmeno nel mezzo di un interrogatorio. Gli attori sono creature complete. Ballano, cantano, sono animali perfetti da musical e dramma. E il tedesco parlato non è un limite per l’attenzione. Dopo i primi minuti di orientamento più spaesato, il pubblico legge, ma poi inizia a capire ancor prima di aver letto, al di là della lingua, perché la densità si converte in fretta. E diventa universale. Perché universale, oltre il fatto locale a noi poco noto, è il tema trattato. Il dilemma continuo tra rischio e protezione, il peso dell’ossigeno tra chi condivide la stessa civiltà. Sabbie mobili appunto, Quicksand, come il titolo provvisorio del progetto. Perché forse rispondere è impossibile. Ma provarci inevitabile.
Call Me God
di Gian Maria Cervo, Marius von Mayenburg, Albert Ostermaier, Rafael Spregelburd
regia di Marius von Mayenburg
con l’ensemble del Residenztheater di Monaco di Baviera