Flanerí

Musica

[BioSong] “Climbing up the Walls” dei Radiohead

di Alessio Belli / 7 dicembre

Canzoni come colonne sonore per film dell’orrore. Musica per menti deviate e psicotiche. Accordi come confessioni di un killer.

Quando un gruppo vive lo stato di grazia, può permettersi tutto, anche di andare oltre i confini stabiliti, le convenzioni e gli stereotipi, sia musicali che testuali, e comporre delle canzoni uniche, senza paragoni. È quello che hanno fatto i Radiohead ai tempi di OK Computer. Con “Climbing up the Walls”.

Capita che lo stato di grazia arrivi sempre dopo i periodi più tesi, dove il peggio e la fine mostrano tutti i tratti della loro forma. 1993: il successo di “Creep” aveva fatto capire fin dall’esordio quanto fosse oscura e malata l’altra faccia della medaglia. L’idea d’essere sempre etichettati come «la band che ha fatto quel successone di Creep» da una parte opprimeva i Radiohead, ma dall’altra, gli dava la sicurezza per lavorare a tutt’altri brani. 1995: le session di The Bends, nonostante lo splendore del risultato finale, ancora mostravano i segni, riportando a galla gli echi dello scioglimento e della crisi isterica. Fare un album così sorprendente al secondo tentativo richiedeva un conto da pagare altrettanto alto. Fortunatamente la band inglese – seguendo l’esempio dei maestri dichiarati R.E.M. e Pixies – non è mai stata solo l’aggregazione di cinque musicisti. I Radiohead sono soprattutto degli amici, uniti e coesi nonostante le divergenze, capaci sempre di mettere il lato umano prima di ogni cosa. Caricandosi così il peso del loro status e stringendo i denti, hanno dettato al fedele produttore e ingegnere acustico Nigel Grondich le condizioni per non ricadere negli stessi errori durante le registrazioni del nuovo album.

1997. Non più qualcosa di statico e ripetitivo, ma la possibilità di trasformare lo studio di registrazione in un laboratorio, dove poter miscelare Pink Floyd e Morricone, Aphex Twin con i Beatles. I cinque di Oxford, caustici e ironici come sempre, scelsero proprio un brano chiamato “No Surprise” per inaugurare le session.

A tutt’oggi, quel lavoro svolto in studio dai Radiohead è considerato lo spartiacque della musica del terzo millennio. Una linea di confine superata solo da Kid A. Se OK Computer è diventato uno dei più grandi e famosi dischi della storia della musica – tra Mercury Prize e live leggendari a Glastonbury – è anche grazie a questo: la serenità, la maturità e la consapevolezza dei propri mezzi finalmente acquisita da parte della band. Sul disco – uscito il 16 giugno 1997 in Gran Bretagna e il 1 luglio in America – è stato detto, si dice, e si dirà ancora molto, vista la singola e intrinseca bellezza delle tracce che lo compongono. Tra queste però ce ne è una, affascinante e terrificante allo stesso tempo, che merita d’esser raccontata.

“Climbing up the Walls” a livello strumentale è una delle gemme di OK Computer. Non c’è uno strumento il cui utilizzo non abbia portato a esiti inediti e stupefacenti. Registrata in presa diretta nell’autunno del ‘96 nella St Catherine’s Court, la canzone concentra su di sé il meglio del gruppo in sala di registrazione: radio a transistor, saturazione del mixer, delay, filtri vocali, sintetizzatori e archi. Va detto che nello scorrere dell’album c’erano stati dei presagi sinistri: l’indelebile finale di “Karma Police” – ottenuto da un geniale Ed O’Brien alle prese tra feedback e scansione di delay – ma specialmente, dall’agghiacciante monologo bionico di “Fitter Happier”. Queste due sono solo l’anteprima della lugubre atmosfera alla John Carpenter che con “Climbing up the Walls” prenderà il sopravvento. Dalla batteria equalizzata di Phil Selway, al basso suonato con un sintetizzatore Novation Bass Station da Colin Greenwood, al rumore bianco della sezione di sedici archi del finale, e i riff sconvolgenti di Jonny Greenwood, la canzone è uno dei capolavori assoluti dei Radiohead, mai citato a sufficienza.

Anche perché questa atmosfera carica di inquietudine e follia combacia alla perfezione con il testo più malato e opprimente mai scritto da Thom Yorke. Le situazioni familiari tragiche descritte in alcuni momenti di Pablo Honey, qui degenerano in versi terrificanti e sanguinari, pieni di indefinibile inquietudine. Questa tragica e claustrofobica situazione casalinga, tra giocattoli chiusi in cantina e punteruoli nel ghiaccio, attraversa le orecchie e il cuore dell’ascoltatore come una lama. E l’idea del protagonista annidato dentro il cranio della vittima, che scala pareti e invita a quindici colpi nella nuca e nella mente, sono la scena dark per eccellenza della produzione testuale di Yorke, al pari solo del «cut the kids in half» di “Morning Bell” su Kid A/Amnesiac. A proposito di situazione familiari raccapriccianti.

 

I am the key to the lock in your house,
That keeps your toys in the basement
And if you get too far inside,
You’ll only see my reflection
It’s always best when the light is off,
I am the pick in the ice
Do not cry out or hit the alarm,
We’re friends till we die

And either way you turn,
I’ll be there, open up your skull
I’ll be there, climbing up the walls

It’s always best when the light is off,
It’s always better on the outside
Fifteen blows to the back of my head,
Fifteen blows to your mind
So tuck the kids in safe tonight,
Shut the eyes in the cupboard
So not cry out or hit the alarm,
You’ll get the loneliest feeling

That either way you turn,
I’ll be there, open up your skull
I’ll be there, climbing up the walls

Climb up the walls. climb up the walls

 

Il testo parla chiaro. L’urlo di Yorke prima che le chitarre impazziscano ancora di più. Abituato a dipingere scenari apocalittici, qui il leader sembra voler andare oltre e delineare senza troppi giri un contesto di ossessione e orrore puro. Ci sarebbe da chiedersi cosa abbia spinto la band ad arrivare a questi livelli di follia, ma come abbiamo detto prima, quando ci si trova nelle stato di grazia ci si può permettere di tutto. E certi capolavori vengono da soli. E fanno paura come pochi. In tutti i sensi.