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“Non ricordo se ho ucciso” di Alice Laplante
di Lucia Gallo / 22 gennaio
Non ricordo se ho ucciso, di Alice Laplante (Fazi, 2012), è la storia di Jennifer White, sessantacinque anni, malata di Alzheimer, nonché celebre chirurgo ortopedico in pensione. La sua migliore amica, Amanda, viene trovata uccisa e con le dita di una mano chirurgicamente amputate. Tagli netti da bisturi. I sospetti ricadono perciò sulla stessa Jennifer, anche per via del rapporto difficile e pieno di tensioni che la legava all’amica.
La narrazione svela i segreti e le verità latenti alla base del rapporto che la protagonista ha non solo con l’amica assassinata, ma anche con i suoi due figli, Mark e Fiona, col marito ormai scomparso, con il marito di Amanda e con l’infermiera Magdalena che vive con lei. Quelli che sembrano essere i classici rapporti tra familiari e amici, tipici della quotidianità di chiunque, si rivelano così per quello che sono: pieni di difficoltà, invidie e paure. La realtà non è quella che si vede ed è proprio la malattia, paradossalmente, a metterlo in luce.
Alice Laplante, autrice di questo incredibile romanzo, fa di Jennifer la narratrice di una storia intrigante, ma al tempo stesso inquietante, utilizzando lo stile tipico del giallo accompagnato, però, da numerosi risvolti di introspezione e riflessione. Ci si potrebbe infatti chiedere come un malato di Alzheimer, che nell’immaginario comune rappresenta “colui che non ricorda”, possa essere il narratore della propria storia. Ebbene, l’autrice riesce nel proprio intento attraverso una tecnica narrativa particolare, che suscita una forte inquietudine, e ricorda quella kafkiana, fatta di continui rimandi e ricordi del passato che si intrecciano con quelli il presente confuso e nebuloso che popola la mente della protagonista.
Viene dipinto, così, il labirinto della mente umana attraverso un racconto tortuoso, ma affascinante, in cui passato e presente si confondono fino all’epilogo della narrazione. La sospettata non può né confessare né difendersi dalle accuse che le vengono mosse, non avendo memoria di quanto è realmente accaduto. A colpire il lettore non è dunque il classico caso di omicidio commesso per paura, invidia o gelosia, ma lo stile virtuosistico utilizzato che riesce comunque a condurre alla tanto agognata “soluzione del caso”. La verità è però così labile nella mente della protagonista da svanire non appena raggiunta, perdendo la propria importanza.
La malattia, vera protagonista di questo romanzo, è dura e difficile da sopportare per chi la subisce e per le persone che ha accanto. Il suo progredire comporta la perdita anche delle più elementari facoltà mentali; le persone amate diventano, pian piano, una moltitudine di estranei, le parole e le sensazioni perdono senso e tutti i discorsi si riducono a «chiacchiere tra creature appartenenti a un’altra specie».
L’autrice dipinge magistralmente, nonostante sembri impossibile, quel black out che si annida nella mente di un malato di Alzheimer, lo sforzo di ricordare, di sembrare ancora “normale”, fino però a sentirsi come un visitatore di un altro pianeta.
(Alice Laplante, Non ricordo se ho ucciso, trad. di Manuela Francescon, Fazi, 2012, pp. 300, euro 17)