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“Narcopolis” di Jeet Thayil

di Barbara Bianchini / 4 marzo

Un unico lungo periodo compone il prologo del primo romanzo dello scrittore indiano Jeet Thayil, già conosciuto per i suoi versi poetici: Narcopolis (Neri Pozza, 2012). Bastano poche pagine per entrare in una dimensione ovattata e desiderare un tiro di pipa, un altro e un altro ancora. A ripetizione. Per perdersi, sentirsi, ritrovarsi e abbandonarsi di nuovo.

«Forse il peggior nemico è IO, forse O è IO, e IO è inattendibile, la mia memoria è come carta assorbente, la mia non-memoria piena di buchi, porosa, friabile, che ricorda dettagli di trent’anni fa e nulla di stamattina, e se memoria = dolore = essere umano, io non sono umano, sono una pipa d’O che racconta questa storia nel corso di una sola notte, e l’unica cosa che faccio, che fa l’altro Io, è scrivere la storia direttamente dal bocchino della pipa».
L’Oppio sembrerebbe essere l’Io narrante incontrastato di questo romanzo, il solo che conosca, meglio di chiunque altro, nel profondo, i protagonisti di questa storia ambientata nella Bombay degli anni Ottanta. La fumeria di Rashid è la più rinomata di Shuklaji Street dove l’oppio è squisitamente servito da Dimple nelle antiche pipe cinesi, lasciatele in eredità da Mr Lee. Il personaggio di Dimple riporta alla mente il mito di Aristofane, o mito dell’androgino, narrato nel Simposio di Platone. Dimple, castrata in tenera età, diviene un’hijra bellissima, sensuale, completa, capace di conversare con la delicatezza femminile e fottere come un uomo. Il suo essere «sia donna che uomo» le ha offerto la possibilità riconoscersi in entrambi. Abbandonando così la certezza di essere e di definirsi una volta per tutte, Dimple impara quanto l’immagine altro non è che una finzione e che la verità, come concetto assoluto, non esiste.

In questa dimensione, come Dimple stessa afferma: «L’oblio era un dono, un talento da coltivare». Dal bordello, dove era cresciuta dall’età di otto anni, alla fumeria. Questo il suo salto di qualità, accompagnato anche da un nome nuovo, Zinat, con il quale Rashid aveva incominciato a chiamarla, da quando si era trasferita nella stanza fra il khana e l’appartamento dove viveva con la moglie e il figlio.
«Cambiava costume a seconda di chi voleva essere, Dimple o Zinat, hindu o musulmana. Ciascun nome aveva ornamenti specifici».
È interessante soffermarsi su come il personaggio di Dimple incarni una pluralità di essere sempre in divenire, senza mai rappresentare una stonatura. Come un dipinto dai tratti leggeri, Dimple mantiene la sua delicatezza anche quando diviene oggetto della passione sfrenata del pittore Newton Xavier, di ritorno a Bombay per la presentazione della sua nuova mostra d’arte esposta alla Jehangir Art Gallery. Attraverso l’intervento di alcuni partecipanti alla mostra, Jeet Thayil trova il pretesto narrativo per affrontare il tema degli artisti che lasciano la propria patria per andare altrove a cercare fama e fortuna. Eppure da Bombay si fugge e a Bombay si fa ritorno per nutrirsi di quelle parti di sé che in altri luoghi non avrebbero luce.

«Bombay, la città che ha cancellato la sua storia cambiando nome e alterando chirurgicamente il proprio volto, è l’eroe o l’eroina di questo racconto».
Questo l’incipit del prologo e, giocando sui termini, proprio l’eroina, o garad, ha alterato chimicamente la natura della città. Mentre hindu e musulmani si ammazzano fra loro la polvere semisintetica ruba l’attenzione dei  tanto affezionati clienti dell’Oppio. Shuklaji Street non è più la stessa. Quando Dom Ullis fa ritorno a Bombay, non trova più le stanze del sesso e dell’oppio che accompagnavano i suoi ricordi. Al loro posto sono sorti negozi e uffici.
Jeet Thayil racconta quindi un prima e un dopo. Un arco temporale in cui il denaro sembra essere diventato il nuovo Credo, l’unica religione e dove l’Oppio non è più «una questione di etichetta», quanto piuttosto una “moda” superata. Narcopolis rappresenta una lettura interessante di una realtà che è andata trasformandosi nel tempo. L’autore non risparmia scenari di miseria al lettore, cercando di gettar luce sulle problematiche sociali che si ripercuotono nella vita dei singoli. Si legge così di una popolazione che cerca di estraniarsi dal proprio vissuto di povertà attraverso l’utilizzo di droghe, ma che allo stesso tempo si interessa all’arte e alla cultura.

Pecca del romanzo l’eccessivo utilizzo di termini esotici che rimandano troppo spesso alla consultazione del glossario, rallentando e interrompendo la lettura.


(Jeet Thayil, Narcopolis, trad. di Vincenzo Mingiardi, Neri Pozza, 2012, pp. 300, euro 16,50)