Libri
“Una buona ragione per uccidersi” di Philippe Besson
di Iacopo Accinni / 5 luglio
Finalmente qualcuno che torna a descrivere le relazioni umane per come sono: semplici, vive, private. Quel pizzicotto che ci fa male, che ci dice che siamo presenti a questo mondo, siamo sempre esseri umani. Questa è la preziosa penna del francese Philippe Besson, una scrittura fresca e felicemente macchiata di inchiostro che non ha assolutamente nulla da invidiare ai ben più commerciali Marc Levy e Anna Gavalda di turno.
Cosa c’è di così vero e attraente nella sua scrittura? La facile percezione dei sentimenti e la capacità intrinseca con cui Besson riesce a cogliere la sensibilità dell’uomo, riproducendo in pochi tratti i legami relazionali che caratterizzano la nostra vita contemporanea. Il tutto con grande pudore. Sentimenti e passioni sono colti nella freschezza della loro innocenza, dipinti con delicatezza e armonia. Qui, si rispetta la dignità dell’uomo.
Una buona ragione per uccidersi (Edizioni Clichy, 2013) è una buona storia di vita, personaggi che nell’insensatezza di un mondo di per sé egoista e deleterio, affrontano l’inesorabile scorrere delle lancette. Ed è proprio qui che una grande storia, forse oggi un sogno, quello americano per la precisione, si viene a fondere con il particolare, con quei destini di cui, anche noi lettori, siamo parte. Quello che al di fuori vediamo come una sottile patina, spesso polverosa, una plastica trasparente e ovattata, che definiamo come “superficiale”. In fin dei conti per noi cosa è l’altro?
Due vite che si vengono a incontrare, forse scontrare, schiacciate da colpe e pesi di cui non si è mai del tutto artefici. Laura è una donna sconvolta. Divorziata, da un giorno all’altro non ha più nulla. La fine della serenità di un’immigrata messicana che, fiera, poteva dire di avercela fatta. Ora, come unica via di uscita, le resta il suicidio. Samuel, invece, è un pittore. In cucina non è mai stato un granché, meno che mai nelle relazioni. Una sola cosa lo rendeva importante: il figlio Paul, suicida all’età di diciassette anni. E poi c’è Barack. Sì, l’Obama che tutti noi oggi conosciamo. C’è quella voglia degli americani, e del globo intero, di cambiare (ci si potrebbe chiedere, oggi, come si sia trasformato il celebre «yes we can»). Siamo alla vigilia delle elezioni statunitensi, quelle che cambieranno la storia. L’attesa è palpabile, la fiducia serpeggia nella multietnica Los Angeles, per tutti sarà un giorno memorabile, di speranza. Forse, non per tutti.
Un soggetto ostico, alquanto scomodo, difficile da affrontare, facile preda di pathos e glassate conclusioni dal sapore di morale preconfezionata. Ma Philippe Besson non è un novello romanziere. Trovando il giusto mezzo e imparando ad attenersi ai semplici fatti e pensieri, senza alcuna conclusione, riesce a farci assaporare la semplicità di cosa vuol dire essere al mondo. Sì, è un resoconto spesso triste, ma dignitoso. La morte non fa paura, né tanto meno il suicidio. È parte integrante della nostra stessa vita.
Il lettore viene condotto per mano nei pensieri e nei dubbi di chi affronta il vivere quotidiano in un modo apparentemente distante dal nostro. Finisce con il seguire attentamente la vita di coloro che poche pagine prima erano dei semplici sconosciuti. Si crea un’empatia involontaria, ci si rende conto di errori commessi, di cosa sia il rimpianto. A ciascuno è consentito di poter dare il proprio giudizio. Al dolore non si può sempre dare una spiegazione.
(Philippe Besson, Una buona ragione per uccidersi, traduzione di Barbara Puggelli, Edizioni Clichy, 2013, pp. 256, euro 16)