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“Storie in modo quasi classico” di Harold Brodkey

di Chiara Gulino / 29 luglio

«Tutte le famiglie felici si somigliano fra loro, ogni famiglia infelice è infelice a modo suo». Chi non ricorda il più volte citato e famosissimo incipit di Anna Karenina?

Da Tolstoj a Flaubert, da Franzen a Eugenides, da sempre la letteratura racconta quel grumo sentimentale irrisolto e irrisolvibile che sono i rapporti di amore e odio, ubbidienza e disubbidienza fra genitori e figli. La famiglia e la sua versione allargata è divenuta negli ultimi tempi sempre più covo di risentimenti piuttosto che nido, focolaio di incomprensioni e frizioni più che focolare.

Storie in modo quasi classico (Fandango, 2012) di Harold Brodkey è una raccolta di racconti, pubblicata originariamente nel 1988, che quel grumo intende non già disciogliere ma indagare attraverso lo sguardo critico e il sentire visceralmente coinvolto di un bambino adottato dai cugini del padre alla morte della mamma quando lui aveva solo due anni.

L’autobiografia infatti è ben dissimulata fra le pagine di questi racconti in cui sono ripercorse le dinamiche della famiglia in cui Weill Silenowicz, questo il nome del protagonista di quasi tutte le diciassette storie, crebbe in un’atmosfera tutt’altro che ovattata: «Spesso, molto spesso avevo degli accessi di rabbia omicida nei confronti dei miei genitori adottivi; li sentivo interiormente, soltanto interiormente: una sensazione ustionante di dolore e di odio al tempo stesso».

Soprattutto la figura materna ne è al centro e ritorna in modo ossessivo in quest’antologia che di fatto costituisce un antipasto di quello che sarà il romanzo più impegnativo di Brodkey, cui l’autore lavorò per trent’anni, Runaway Soul, anch’esso in via di pubblicazione secondo quella meritoria opera di riscoperta che Fandango si è proposta di portare a compimento tributando il giusto omaggio anche da parte del nostro paese a quello che può essere considerato a buon diritto uno dei maggiori scrittori americani del Novecento.

Il racconto eponimo è il più sorprendente e sconvolgente. È il racconto in cui il genio letterario di Brodkey raggiunge forse il suo apice.

Protagonista è un ragazzino adolescente che si affaccia alla maturità di nome Harold Brodkey. È proprio lui, lo scrittore, che in questa storia prova a mettersi letteralmente nei panni della madre adottiva, come lei stessa più volte lo esorta a fare, ovvero di una donna di mezza età malata di cancro, piena di risentimento e odio, avvertendone anche fisicamente le sofferenze. Sono pagine dolorose e faticose anche per il lettore più freddo e distaccato. I due si scontrano, si graffiano ma nonostante tutto rivelano la loro forte interdipendenza: «Dopo la sua morte, ebbi un crollo nervoso. Non riuscivo a credere che mi mancasse tanto. L’avevo amata alla fine, l’avevo amata di nuovo, l’avevo amata e ammirata, l’avevo amata enormemente; naturalmente, a quel punto lei non chiedeva più che il mio amore si esprimesse in una forma di sacrificio per lei. L’amai, mentre mi godevo una crescente libertà da lei, ma avevo ancora bisogno di lei, e, come ho detto, ebbi un crollo nervoso quando morì».

A proposito di questo racconto, in un’intervista del 1991 rilasciata alla traduttrice italiana Delfina Vezzoli, posta a conclusione del libro, Brodkey affermava: «Ecco […] questa è “quasi” la mia storia preferita, e in un certo qual modo contiene la chiave della mia scrittura: il tentativo, che rincorro, di risalire alle radici dell’esperienza e raccontare, con un linguaggio non convenzionale, non stereotipato, in che cosa consiste un’emozione, come si presenta alla coscienza, e quali reazioni scatena».

Le storie di quello che Harold Bloom definì il «Proust americano» raccontano la vita senza cercare di interpretarla o di indagare le psicologie dei suoi attori, ci narrano il dolore senza cercare di lenirlo, la sofferenza senza rinunciare a volte a una dose di humour tipicamente ebraico.


(Harold Brodkey, Storie in modo quasi classico, trad. di Delfina Vezzoli, Fandango, 2012, pp. 862, euro 29,50)