Musica
[IlLive] Baustelle @ Auditorium Parco della Musica, 27 luglio 2013
di Sabatino Peluso / 29 luglio
Chiunque si sia seduto almeno una volta nella Cavea dell’Auditorium Parco della Musica di Roma sa che ogni live ha un suo volto, un suo ritmo e anche una sua aneddotica. Quest’ultima edizione di Luglio suona bene lo ha ribadito attraverso chi, come i Baustelle, ha fatto vibrare strumenti e riempito di suoni l’aria concava della Cavea.
Portando in giro per l’Italia Fantasma, il sesto disco pensato e scritto dal trio senese, l’obbiettivo era parlare del tempo come un fantasma, o di quel fantasma spaventoso che è il tempo, come succede in Edgar Allan Poe o in Montale. E come anche al primo ascolto del disco, il tempo è leitmotiv insieme alla portata orchestrale a rappresentare la costante del live; un muro sonoro che dalle spalle dei tre raggiunge ogni persona venuta a sfidare l’aria calda e immobile del 27 luglio. Ma quello dei Baustelle è stato per lo più un live stracolmo di volti da osservare più che di suoni e strumenti da seguire e, canzoni a parte, povero di aneddoti.
Il valore corale di un progetto come quello che parte con Fantasma, per quanto si possa discutere, è certamente una questione di estetica, se vogliamo soggettiva, com’è l’idea che ogni ascoltatore può farsi della musica che ascolta. Ma se una performance è ancora qualcosa che dal divino è ispirata – fosse pure un divino rien, quello di Mallarmé – allora o si parla di assenza di ispirazione o di mestiere del musicista (e sciopero sindacale delle emozioni). Poco c’è da dire su ciò che è estensione vocale o sul concetto di brivido che trasmette una voce come quella di Rachele Bastreghi, poiché rappresenta bene ciò che è musica. Ma, pezzi di bravura a parte, come quelli di chi scrive i testi, chi li suona, chi li dirige (con Enrico Gabrielli a guidare la foltissima Ensemble Symphony Orchestra), che dire del concetto di noia? Si parlava del tempo, dicevamo; quello passato e quello futuro; di come lo si attraversa e di come lo si pensa, senza rendersi conto però che quello presente è altrettanto importante e racchiuso nel gesto con cui si accompagna un accordo di chitarra o in una parola pronunciata/cantata al microfono. Questo decide la noia: non degli spettatori, gentili e affezionati applauditori, ma del fantasma di un orchestrale immobile (uno dei tanti) e la storia triste del suo strumento, liberato dalla sua schiavitù silenziosa solo per accennare un rumore che magari nessuno coglierà, poiché c’è comunque Bianconi, una sedia e una chitarra, il tono baritonale, con parole che non vanno oltre la giustificazione del perché quella sera siamo tutti lì – ma quello è il minimo sindacale.
Forse, per chi arrivava nel salotto dei Baustelle per la prima volta, l’emozione verginale ha saputo colmare un gesto non compiuto o una nota non suonata, quando di note se ne potevano fare anche di più. Forse avrebbero invaso troppo il tema portante e le parole che lo hanno accompagnato, ma tra il lalalalala di apertura di“Fantasma (Titoli di testa)”, le ipotesi di “Il futuro”, il manifesto personale che è “Nessuno” e “Andarsene così” che chiude il tutto, più che lo spazio del ricordo per l’arrangiamento slow di “Charlie fa surf” o per l’omaggio a quell’altro cantore del tempo che fu Leo Ferré di “Col Tempo”, resta la fotografia che ritrae chi era la sera prima a una festa: la faccia assente, gli strumenti mezzi addormentati; lasciando tra i vari pensieri e discussioni anche l’idea che forse la domanda che qualcuno di quelli che era lì sul palco si è fatto prima di salire fosse: «Mi si nota di più se vengo e me ne sto in disparte o se non vengo per niente?…»
Dalla buona penna alla buona voce di Bianconi, con la scenografia minima data dalla copertina di Fantasma, a Rachele a cui basta la voce, un pianoforte e tacchi alti per convincere, gli Ensemble, la band, la chitarra di Claudio Brasini, resta da dire che ventidue sono stati i pezzi che hanno dato forma al setlist di una serata che, a ogni modo, è stata applaudita ma soprattutto cantata. Forse è questo che mette in discussione anche il più evidente accenno di noia o di silenzio.