Cinema
“Cose nostre - Malavita” di Luc Besson
di Francesco Vannutelli / 11 ottobre
La famiglia Blake si è appena trasferita in un paesino della Normandia dal Sud della Francia. Prima aveva vissuto a Parigi, prima ancora, in un’altra vita quasi, a Brooklyn. A quei tempi non si chiamavano Blake, ma Manzoni. Il padre, Giovanni, negli Stati Uniti era un rispettato e temuto boss della mafia. Un giorno ha deciso di smetterla con la vita criminale e ha iniziato a collaborare con la giustizia. Da allora l’FBI lo manda con la moglie e due figli adolescenti il più lontano possibile dalla vendetta degli ex colleghi mafiosi, cambiandoli di destinazione ogni pochi mesi. I Blake non sono abituati a una vita normale e finiscono sempre, a scuola, con i pescivendoli disonesti, per creare problemi con la gente del posto. In Normandia si stanno dando da fare tra supermercati e acqua inquinata, quando, per caso, nel carcere di Attica uno dei boss traditi riesce a individuarli e invia dei killer in Europa per eliminarli.
Luc Besson continua il suo percorso cinematografico attraverso ogni tipo di genere con una commedia nera sulla mafia italo-americana che dissacra i gangster movie statunitensi. In principio c’è il romanzo omonimo di Tonino Benacquista (Ponte alle Grazie, 2013), ma c’è soprattutto qualcosa di Martin Scorsese in Cose nostre – Malavita. Non solo perché il regista di Casinò compare in veste di produttore esecutivo, ma principalmente per il modo con cui Besson ha scelto di affrontare la materia malavitosa: avvicinandosi ai mafiosi nella loro quotidianità, seguendo il modello che I Soprano televisivi hanno imposto, ma che prima ancora Scorsese aveva proposto con Quei bravi ragazzi. È proprio quest’ultimo il modello di film più vicino a Cose nostre, e non solo per la citazione ai limiti del cortocircuito metacinematografico con cui Besson e Scorsese, con la complicità di De Niro, si sono divertiti, ma perché il personaggio di Giovanni Manzoni assomiglia all’Henry Hill interpretato da Ray Liotta che lascia New York protetto dai federali dopo aver deposto contro la banda. Certo, qui l’ironia prevale sul dramma, ma il riferimento si percepisce. Come il leggero eco di FBI – Protezione testimoni che si sente di tanto in tanto
Robert De Niro si diverte a giocare con il suo passato, e si vede. Mescola tutti i boss della sua filmografia passandoli per il filtro dell’ironia già usato in Terapia e pallottole e si cimenta con un personaggio fragile e terribile, che non sa come comportarsi in una vita senza violenza, con delle regole diverse da quelle dell’onore mafioso. Gli fa compagnia Michelle Pfeiffer, casalinga spietata e splendidamente ordinaria, che torna la Vedova allegra ma non troppo di Demme nei flashback newyorkesi.
A Besson non importa rimarcare le differenze tra Stati Uniti e Francia. Il gioco degli stereotipi si limita a qualche battuta sul cibo, poco più. La dimensione del criminale esiliato in un paese straniero, che ricorda il fortunato In Bruges, viene affrontata solo di sfuggita. L’attenzione della sceneggiatura, curata dallo stesso regista con Michael Caleo, si concentra esclusivamente sullo spaesamento dei Blake in una vita basata su regole nuove che non prevedono violenza e vendetta. L’umorismo nero emerge proprio dal contrasto tra l’ordinarietà della situazione scatenante (idraulici negligenti, corteggiatori troppo pressanti) e la sproporzione della reazione del Blake di turno.
Michelle Pfeiffer e Robert De Niro si muovono tra momenti di vita di coppia, minacce, ricordi e sparatorie sotto la guida briosa e decisa di Luc Besson. I dialoghi con i loro agenti di custodia, guidati da Tommy Lee Jones, offrono un buffo spaccato di quotidiana intimità tra guardie e ladri. Le cose peggiorano quando si seguono i due figli, soprattutto la stellina di GleeDianna Agron alle prese con delusioni amorose che ben poco hanno di coinvolgente. Un peccato perché, pur non offrendo molto di originale, Cose nostre – Malavita sa divertire molto bene.
(Cose nostre – Malavita, di Luc Besson, 2013, commedia, 111’)