Cinema
“Nebraska” di Alexander Payne
di Luigi Ippoliti / 7 marzo
Candidato agli Oscar nelle categorie miglior film, miglior regista, miglior protagonista, miglior attrice non protagonista, miglior sceneggiatura originale e miglior fotografia, Nebraska un è film pieno di possibili strati di letture, spunti e interpretazioni narrative.
Dopo A proposito di Schmidt, Alexander Payne torna a incentrare una sua storia facendo perno sulla vecchiaia, questa volta veicolo per il viaggio nel cuore geografico e non solo della società americana, tra illusioni, ipocrisie e contraddizioni.
Woody Grant (Bruce Dern) è un vecchio scontroso che si ritrova in mano un volantino-truffa. Per la falsa promessa della vincita di un milione di dollari da ritirare a Lincoln, Woody decide di incamminarsi dal Montana al Nebraska. Nonostante i primi tentativi da parte del figlio Dave (Will Forte) di dissuaderlo da questa impresa, i due prendono e partono in macchina per Lincoln, quasi senza far caso alle rimostranze della moglie (June Squibb). Durante il viaggio emergono aspetti del rapporto sopiti dagli anni passati e avvengono chiarimenti – in maniera più o meno brusca – taciuti fino ad allora. C’è il tempo per una rimpatriata in famiglia nel paese dove Woody è cresciuto. Ad accoglierli il fratello con la moglie e i loro due figli, che probabilmente incarnano tutto il peggio della società – ipocriti, violenti, approfittatori, anche se di fondo due ingenui e rozzi nullafacenti. La notizia della vincita del milione di dollari si diffonde nel paese. Familiari e non iniziano a farsi avanti chiedendo qualcosa a Woody, tirando in ballo vecchie storie di vecchi prestiti, fino a quando non viene a sapersi dell’errore. La gogna pubblica, quando l’odioso Ed Pegram (Stacy Keach) legge ai compagni di bevute la verità scritta sul volantino-truffa sotto gli occhi di un ancor più spaesato Woody, è uno dei momenti più struggenti del film.
Memorabile la scena in cui Dave e il fratello Ross (Bob Odenkirk, alla ribalta negli ultimi tempi per aver interpretato l’avvocato sui generis di Breaking Bad, Saul Goodman ) rubano il vecchio compressore che quarant’anni prima era stato rubato (da Ed Pegram) a Woody salvo poi accorgersi di essersi intrufolati nel capanno sbagliato.
L’illusione dell’esasperazione dell’idea degli Stati Uniti come Terra Promessa e l’American Dream che soccombe alla crisi mondiale. Una società che muta e che deve far fronte delle difficoltà di un’epoca dove anche uno dei pilastri della società stenta ed essere ancora un appiglio ben saldo per i propri cittadini.
Nel viaggio si affronta l’alcolismo di Woody che si può vedere come una dipendenza in senso più ampio, un virus che ha attecchito nel corso della storia, soprattutto recente, e che oramai è una componente innegabile della società, un qualcosa che può rendere più semplice la via di fuga dalla propria vita – in questo caso una moglie probabilmente mai amata e l’aver vissuto la vita di qualcun altro –, tema che nella letteratura contemporanea è sviscerato con perizia da David Foster Wallace (dipendenza dalla televisione, dalle droghe, dall’alcol stesso), o estremizzato come in Chuck Palahniuck , dove sesso-dipendenza e la dipendenza stessa da incontri con le più disparate dipendenze sono il senso che muove la vita delle persone.
L’opera si conclude con una scena parodisticamente western, con Woody che vendica il proprio passato guidando il pick up – comprato da Dave dopo che anche il vecchio si rende conto che il milione di dollari non arriverà mai – lungo le strade del paese d’infanzia sotto gli occhi esterrefatti dei suoi ex amici ed ex fidanzate. Una vendetta silenziosa, strisciante, una (ri)acquisizione di sé lontana da probabili retoriche buoniste del vissero tutti felici e contenti.
Terza volta in un Nebraska (stato di provenienza di Payne), dopo La storia di Ruth, donna americana ed Election, messo in risalto perfettamente dalla sua scelta del bianco e nero, un’opzione stilistica che segue a tre anni di distanza quella di Michel Hazanavicius in The Artist (dove il bianco e nero aveva il compito di immergere ulteriormente la storia negli anni ’20 e ’30), e che accompagna con equilibrio le lande desolate in cui siamo immersi e i rapporti interpersonali dei personaggi.
Innegabile che, oltre l’aspetto sociale, Nebraska parli di quello che eravamo, della riscoperta di vite sepolte – un ritorno ai luoghi dell’infanzia à la Jonathan Franzen nelle proprie zone disagio –, le stanze nella casa in cui siamo cresciuti come luoghi emotivi che riemergono con impeto. Fare i conti on il proprio passato, prima o poi. Con ciò che siamo stati e che non saremo più.
La solitudine dell’individuo in una società cinica che crea illusioni come fossero trappole per topi e che successivamente divora e ingloba tutto, soprattutto le debolezze umane.
(Nebraska, di Alexander Payne, 2013, drammatico, 115’)