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“Tutto quel che è vita” di James Salter

di Cristiana Saporito / 26 maggio

James Salter è un atleta. Uno di quelli che emergono sulla lunga distanza. Muscoli solidi, operosi, capaci di impastare prestazioni costanti, di garantire negli anni performance di livello. Rastrella premi, scava l’alveo del suo pubblico. Non desta tumulti, acquazzoni di applausi. Figura tra i professionisti, abita tra loro, ma il suo nome non tuona. Tanto meno oltre oceano. Lui comunque persiste e lavora, macinando titoli, racconti, sceneggiature. Perché è uno scrittore agonistico. È questa la sua disciplina olimpica.

Che abbia 88 anni a quanto pare conta poco. Almeno per intaccarne l’energia creativa. Conta molto, quasi tutto, per forgiare la materia del suo dire. Perché la Storia che si schiarisce la gola tra le pagine del suo nuovo romanzo Tutto quel che è la vita (Guanda) è la stessa, più o meno maiuscola o cubitale, che Salter ha inalato negli occhi, la stessa che gli è cresciuta addosso, come un muschio di ricordi, di scenari cangianti, d’impronte sempre vive. La vicenda è un fiume, rampollato nel torace del ’44, durante il secondo conflitto mondiale, in pieno Pacifico.

A navigarla è Philip Bowman, giovane sottotenente della Marina Militare Americana.

È scivolato nella guerra, come correnti di altri uomini, e impara presto a capire quale lingua parla il nemico; a volte quella del mare, più spesso quella del cielo, che grandina morte di aerei suicidi. Il «vento divino» soffia dentro velivoli che decollano per non atterrare, per schiantarsi sulla pelle avversaria. Il Giappone sembra invincibile, è addestrato per non perdere, o per farlo in modo imperiale. E sappiamo a dovere quanto è stato ciclopico il tonfo. Un fungo atomico di polvere e rovina.

Ma Philip torna a casa, perché c’è altro in serbo per lui. C’è New York che freme di ricchezza, che fruscia di promesse e una nuova carriera di editor pronta per essere agguantata, incontro dopo incontro.

Perché ognuno di essi sancisce un passaggio, un lancio di dadi. Una scommessa coi propri sogni.

Come quello con Vivian, bella e vuota d’anima, che resta imprendibile anche quando acconsente a sposarlo, figlia di troppo benessere per essere moglie del suo quotidiano. Il matrimonio si sbriciola in mezzo alle mani, frana come un masso vissuto sempre in bilico, ma Philip non si sottrae al gioco, non può.

Ad attenderlo c’è Enid e la passione inesausta, l’appetito di carne e sudore, le trasferte spagnole in un cielo arrogante di gioia, ma anche quel battito rallenta, perché ha bisogno di incespicare ancora, di ormeggiare su altri fianchi. Christine è l’illusione della volta giusta, del porto maturo, definitivo. Eppure quando si snuda il petto, Bowman diventa solo un bersaglio scontato, troppo esposto per non essere scalfito.

L’amarezza si fa vendetta, incrudelisce il fiato e i residui di ogni scrupolo. E Philip ripiega nella coscienza di una realtà più mite, l’unica che gli è concessa, senza picchi né scosse di cuore.

Non c’è famiglia prevista nei suoi scopi, ci sono altri viaggi e stanze leggere in cui aspettare il giorno dopo.

Ma la potenza del romanzo si dispiega metri e lune oltre la sua parabola vitale. Si dipana infatti in un vivaio di personaggi infiniti descritti in breve e fino all’osso, un arcipelago di esperienze cesellate di dettagli.

Per ognuno c’è un profilo, una scatola di mondo fatta di trascorsi, ambizioni, cimeli lucidi e fondi di scaffale. Ogni ambiente, ogni cambio di scena ha il suo preciso alveare umano, un dedalo di ante e cassetti così fitto che si rischia di smarrirsi.

Dai genitori di Vivian ai colleghi di lavoro, tutti sono tassidermicamente immortalati, senza omettere un tributo spesso e doveroso all’universo editoriale, con le sue spirali di autori più o meno nascosti, gli aneddoti d’ombra e di ribalta. Lo stuolo di famosi e quello di affamati, di artisti squattrinati e di nomi eccellenti, da Ezra Pound a Somerset Maugham, da Federico García Lorca a Thornton Wilder, con accanto il pulviscolo di chi non ce l’ha fatta ed ha sfornato pagine senza ritorno, annaspate nell’affitto e nei dintorni di un bicchiere.

D’altronde scrivere è la sola salvezza, a volte spossata a volte riuscita, ma comunque necessaria.

Provarci è ineluttabile. È la finestra dove l’aria si condensa e poi s’intrappola senza cercare uscita.

La luce emessa per restare a galla, per abbracciare ed eternare tutta la nostra decadenza.

«Vivere per raccontarla», secondo García Márquez, altro puer aeternus della letteratura, deceduto da poco eppure mai spento. In compagnia di Salter c’è un intero plotone di scrittori a cui l’anagrafe non ha certo frenato la mano. Dal coetaneo Andrea Camilleri, al poco più giovane E. L. Doctorow, da Boris Pahor a Toni Morrison, le librerie ancora straripano di esempi di freschezza quasi centenaria.

Perché per mordere il lettore serve la forza, non i denti.

 

(James Salter, Tutto quel che è la vita, Guanda, 2014, pp. 352, euro 18)