Libri
“Americani” di John Jeremiah Sullivan
di Luigi Ippoliti / 3 giugno
Quanto Americani (Sellerio, 2014) possa risultare estremamente insulare, racchiuso in gabbie tirate su a forza di autoreferenzialità e metadiscorsi, di americani che parlano come americani di altri americani, è piuttosto facile: molto. Lo è, e lo è nel modo tipico di affrontare fenomeni popolari da parte di quel movimento che intorno agli anni ’70 venne chiamato New Journalism (Tom Wolfe, Hunter S. Thompson) e di cui John Jeremiah Sullivan probabilmente ne è erede.
Quanto, poi, un discorso legato ai più disparati fenomeni culturali americani possa renderci partecipi, a noi europei, e empaticamente attivi può risultare complesso, ma paradossalmente di facile soluzione. Essendo noi, dall’altra parte dell’Oceano, in parte un’appendice della cultura predominante statunitense – di come la cultura americana in un secolo sia riuscita in qualche modo a surclassare quella europea a livello globale è piuttosto ovvio –, la raccolta di reportage di John Jeremiah Sullivan – titolo originale: Pulphead – può risultare molto più familiare di quanto non si potrebbe immaginare.
Gli Stati Uniti sono ovunque nel mondo occidentale, gli americani sono ovunque, quindi ritrovarsi ad avere a che fare con una scampagnata a Disneyland, in Florida, nei suoi vortici e di fronte alla sua iper riproposizione concreta e non più esclusivamente mentale dell’infanzia e delle sue icone, l’immaginario che Walt Disney ha costruito nei nostri ricordi, non ci trova spiazzati, e Parigi è lì pronta a testimoniare. Trovarsi a chiacchierare con alcuni vecchi concorrenti del primo reality show (The Real Word, in Italia sono state trasmesse su Mtv solo la dodicesima e la ventesima stagione) in una discoteca, dove le dinamiche sono le stesse di quelle che conosciamo – partecipi al reality, esci, compari in locali, discoteche, non fai sostanzialmente nulla, ti pagano e vai via – di certo non ci spiazza. Di santoni laici come Axl Rose e Michael Jackson sono state scritte pseudo agiografie e nell’aria si è sempre respirata, nonostante alcune ambiguità di fondo, una sorta di adorazione incondizionata nei loro confronti (Sullivan, per quanto riguarda la pop star deceduta nel 2009, ha il grande merito di parlare della sua presunta pedofilia in termini non retorici) e abbiamo appigli a cui aggrapparci, sappiamo come muoverci. Addirittura l’uragano Katrina – gli uragani sono fenomeni di cui, per fortuna, a queste latitudini ne sappiamo poco e niente, né del prima, né del durante, né del ciò che rimane –, per quanto lontano da noi, lo abbiamo in parte vissuto attraverso la riproposizione morbosa su internet, sui telegiornali, sui giornali e dalle donazioni, dai documentari, dai film. Forse i soli centri di ricerca sul futuro, dove gruppi di scienziati lavorano cercando di capire cosa accadrà, dei futurologi veri e propri, possono straniarci, ma anche qui, letteratura e cinema ci hanno fornito spunti infiniti per poterci anche solo pensare.
Abbiamo a che fare con qualcosa che inconsciamente abbiamo assimilato negli anni, un’ombra con cui abbiamo e dobbiamo fare i conti. Si finisce in Giamaica, a tu per tu con Bunny Wailer, l’ultimo dei Wailers, la prima band di Bob Marley, a parlare del rapporto tra gli Stati Uniti e le isole caraibiche; Rafinesque, naturalista francese, darwiniano ante-litteram; l’esperienza di affittare casa per una sit-com (One Tree Hill); il Tea Party; William Faulkner.
Tradotto splendidamente da Francesco Pacifico, che ne coglie appieno linguaggio e intenti, in qualche modo Americani è giornalismo globalizzato e nonostante Sullivan probabilmente non riesca ad arrivare a profondità letterarie tipicamente wallaciane, ne esce fuori un ritratto quasi emotivamente scientifico di una nazione (di una parte di mondo?) in perenne lotta con i propri demoni.
(John Jeremiah Sullivan, Americani, trad. di Francesco Pacifico, Sellerio, 2014, pp. 324, euro 16)