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“Una profonda invidia per la musica” di Giorgio Manganelli

di Michele Lupo / 10 giugno

Manganelli inesauribile. Come l’azzardo di una singola scelta lessicale che coglie di sorpresa il meravigliato lettore giusto il tempo di realizzare che la sua eccentricità è solo apparente, così a ogni testo recuperato post-mortem(ormai non si contano più) chi legge conviene che sì, in fondo c’era da aspettarselo – ché di avventizio vi è niente più del paradossale pudore che un grandissimo come Giorgio Manganelli avrebbe avuto di definirsi scrittore. E uno scrittore che confessa «una profonda invidia per la musica» in realtà non dovrebbe stupire. La musica per uno scrittore può essere un’ambizione – e uno scacco. «Esiste una specifica invidia dello scrittore verso il musicista che è l’invidia di una condizione particolare che a lui sembra infinitamente più libera e più inventiva, più naturalmente fantastica». A cosa allude Manganelli? A una specie di angoscia del significato. «Lo scrittore sa benissimo che la letteratura non vuole dire niente: ha ben altro da dire che non dire… E questa condizione il letterato la trova nella musica realizzata con una condizione particolarmente felice».

Manganelli queste cose non le scrive ma le dice in una serie di conversazioni radiofoniche andate in onda sui canali Rai nel 1980, con il saggista e musicologo Paolo Terni. Fino ad allora non si era mai cimentato con la musica in modo aperto, attraverso pubblici scritti o interviste, ma Terni, suo amico, ne sapeva la passione. Schubert, Haydn, Verdi, Mahler, la musica tradizionale del Giappone – nonostante il prevedibile understatement, Manganelli esibisce conoscenze e “letture” di “ascoltatore maniacale” magari oblique ma folgoranti.

Gli interessano soprattutto alcune soluzioni o strutture che hanno poi una certa influenza sulla sua scrittura – la variazione per esempio. O la traduzione dell’angoscia in una forma, dal Tannhauser al Dies Irae mozartiano. Ancora, una specie di fissazione per i quartetti di Amadé dedicati a Haydn nei quali il materiale psicologico viene a suo avviso rovesciato nel puro gioco della forma. Haydn è un musicista su cui Manganelli confessa di tornare spesso, «per quella sua singolare miscela di facilità e difficoltà», per il sarcasmo matematico e la dura purezza con cui disegna un universo di idee platoniche «impossibile da decomporre». Epperò, all’inverso, si domanda: «non sarà l’assoluta assenza di idee che rende oggi la musica di Mozart così irresistibile?»: l’esempio più alto di un ilare volo oltre la «minaccia pedagogica» degli affanni, della psicologia – del significato.

Non può peraltro non destare interesse la perentoria asserzione di uno scrittore come Manganelli a proposto di Verdi: «Dico subito che non ho l’impressione che il problema del volgare sia pertinente all’opera di Verdi. Direi che il suo è un mondo totalmente fantastico». Con buona pace di tradizioni ermeneutiche illustri, da Charles Rosen in avanti. Chissà cosa avrebbe pensato lo studioso dei romanticismo del legame istituito da Manganelli fra la diade eros-morte in Wagner e lo sguardo rapido (si stava per scrivere rapìto) e abissale sulla musica come esperienza fondamentale della vita giovanile.

Il libro, che nessun appassionato di musica e/o di Manganelli dovrebbe perdersi, era già apparso per Sellerio nel 2001 e ora torna in libreria con cd accluso e scritti dello stesso Terni e Andrea Cortellessa (in una nuova intrapresa della collana “fuoriformato”) per gli ottimi tipi de L’Orma Editore. Nel volume anche cinque brevi articoli dello scrittore.

(Giorgio Manganelli, a cura di Andrea Cortellessa, Una profonda invidia per la musica. Invenzioni a due voci con Paolo Terni, L'Orma editore, 2014, pp. 168, euro 24)