Libri
“Nostalgia” di Eshkol Nevo
di Chiara Gulino / 24 giugno
«Nostalgia è una bella parola, si ferma Saddiq, e Mustafa: perché proprio quella? Che ci trovi di bello? Saddiq si spreme le meningi (la notte quasi non ha dormito, e nemmeno la precedente c’è riuscito) e dice: perché la nostalgia è come hai detto tu, voler essere in un altro posto. E questa parola, gaaguim, è come un bambino che piange perché vuole la sua mamma, ga-a-gu-im, ga-a-gu-im, capisci che intendo?»
Quando gli anni da vivere cominciano inesorabilmente a essere meno di quelli vissuti, come i granelli di sabbia di una clessidra che velocemente vengono risucchiati verso la parte sottostante, si fa strada un sentimento che sembrerebbe peculiare della senilità ma di cui nessuno può dirsi immune: la nostalgia.
Nostalgia di una persona che non c’è più o di un oggetto, di un cane o di una casa, di una melodia che ci riporta all’atmosfera degli anni in cui l’ascoltavamo, di un profumo o di un sapore che al pari delle madeleine proustiane ci fa rivivere una sensazione passata innescando la nostra memoria involontaria.
Poi c’è la nostalgia in generale, ossia di niente in particolare. È questa la nostalgia che attanaglia le persone più fragili e sole di tutte le età, persone che, vivendo nel presente i loro piccoli o grandi drammi interiori, vanno alla ricerca di un posto nel mondo aggrappandosi ai ricordi.
È questo il caso delle voci che compongono il coro del bel romanzo con cui esordì nel 2004 lo scrittore israeliano Eshkol Nevo, Nostalgia (Neri Pozza, 2014), ora ritradotto con la partecipazione dell’autore: Noa e Amir, Yotam, Sima e Moshe, l’arabo Saddiq, Modi, l’amico di Amir.
La narrazione procede per fotogrammi, frammenti che vivisezionano il racconto personale di ciascun protagonista facendosi a volte faticosi come il respiro di chi cammina nella tormenta, in una sorta di antropomorfismo della scrittura.
In questi momenti la forma del romanzo diventa allora la forma della nostra modernità, insieme inquieta e inafferrabile, come una fotografia mossa. È questo del resto il segreto della fotografia (lo sa bene Noa, aspirante fotografa di professione): cogliere quel qualcosa che solo l’obiettivo riesce a catturare, qualcosa che non si può imparare ma solo sviluppare come uno scrittore fa con le parole.
Questo qualcosa è quello che cerca Noa ma che non riesce a esprimere da quando è andata a vivere con Amir, il suo compagno studente di psicologia, a Maoz Tzion detto il Castel, paesino a metà strada tra Gerusalemme e Tel Aviv, ex enclave araba, occupata nel 1948 da una comunità ebrea proveniente dal Kurdistan. È come bloccata nella sua creatività, eppure ama Amir.
Anche Amir non è più lo stesso da quando presta tirocinio nel centro per malati mentali. È come se avvertisse su di sé il dolore di tutti quanti i pazienti per una sua innata ipersensibilità. Vorrebbe sfogarsi con Noa quando torna a casa ma inevitabilmente è lui che si trova a confortare lei dei suoi quotidiani piccoli fallimenti.
Ci vorrà un po’ di lontananza affinché la nostalgia di lei faccia vedere ad Amir le cose in modo completamente diverso da come le aveva interpretate fin a quel momento: «Mi sono fermato davanti alla foto dell’uomo triste. Strano, ho pensato. Avrò guardato questa foto un milione di volte e ho sempre pensato fosse un letto d’albergo, in un paese straniero, e che il tizio stesse guardando fuori alla luna, pieno di nostalgia di casa. Adesso improvvisamente mi è balzata in testa un’altra storia: l’uomo è in casa sua. Dentro una casa che una volta era sua. Sta guardando fuori nelle speranza che, lei che se ne è andata torni e gli restituisca quella sensazione, poiché senza di lei quel letto è anonimo, come un qualunque letto d’albergo. E il lenzuolo è spiegazzato di stanchezza, non d’amore. E quelle quattro pareti sono quattro pareti, niente di più, e la porta un buco nel muro riempito di legno, e il tetto nero come la pece, e la poltrona, il tavolo, le sedie – tutti i mobili sono freddi, morti».
Così Amir si affezione al figlio dei dirimpettai, Yotam che, da quando il fratello maggiore Ghidi è morto soldato in Libano si sente trascurato dai genitori.
C’è poi la vicina, Sima, la moglie del proprietario Moshe, che con la sua esuberanza ribelle alla religione e trasgressiva rappresenta tutto ciò che Noa non è.
A movimentare il quadro narrativo ci sono poi gli intermezzi delle lettere di Modi, il miglior amico di Amir, partito per il Sud America per dimenticare una delusione amorosa e che strappa più di un sorriso al lettore con le sue teorie strampalate.
A contestualizzare le vicende ci sono poi le eco degli eventi storici con l’assassinio il 4 novembre 1995 del Primo Ministro Rabin a opera di un estremista ebreo e gli attentati terroristici che seguirono a Gerusalemme. Del conflitto israeliano-palestinese, del resto, si avvertono le conseguenze a livello privato nella storia del muratore arabo Saddiq, la cui famiglia prima della cacciata era proprietaria della casa dei genitori di Moshe al secondo piano. La nostalgia a cercare di recuperare in qualche modo qualcosa appartenente a sua madre e lasciato lì nella concitazione della fuga.
Nostalgia è un titolo azzeccato anche perché quando si finisce di leggerlo non si può non provare nostalgia dei suoi personaggi rivelati nelle loro fragilità, paure e insicurezze, che sono anche le nostre
(Eshkol Nevo, Nostalgia, trad. di Elena Loewenthal, Neri Pozza, 2014, pp. 416, euro 18)