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Una disperata perfezione lirica: Franco Loi

di Laura Mancini / 5 novembre

Franco Loi è cambiato. A cavallo tra gli anni Ottanta, primavera della sua poesia, e gli anni Novanta qualcosa è intervenuto a modificare della sua sensibilità poetica se non la sostanza certamente l’indirizzo. La crisi mistica. Non è tanto e solamente nelle vicende biografiche dell’autore che questa profonda svolta esistenziale deve essere indagata, quanto piuttosto negli esiti formali della sua poesia, il cui radicalismo dialettale va progressivamente smussandosi, percorrendo una fase di transizione lirica pura, poi sfociando in confuse commistioni di generi e idee, sino all’affermazione del misticismo sovrano, avvenuta – con nostro simpatetico sgomento! – nei primi anni del duemila.

Loi, nato a Genova nel 1930 ma trasferitosi a Milano nel corso della prima infanzia, è cresciuto negli ambienti popolari proletari di questa città. Ha svolto una serie disparata di lavori, tra i quali è giusto ricordare quello allo scalo merci, per la documentazione linguistica e il consolidamento politico che ne conseguirono. Fino al 1954 il poeta milita nel Pci, del quale regge una sezione giovanile, sino all’allontanamento – precedente dunque ai fatti d’Ungheria – che però non interrompe la sua attività politica, da quel momento in poi condotta in ambito extraparlamentare. Tutta volta al rifiuto dell’elitarismo letterario, la personalità intellettuale di Loi cresce nutrita di cultura alta e popolare (Dante e Leopardi, ma anche, sul fronte dialettale, Tessa e Noventa). Dagli anni Settanta in poi Loi, dopo una serie di sperimentazioni teatrali, si dedica alla poesia con totale dedizione, in una pratica scrittoria che il poeta stesso non esiterà a definire, in numerose occasioni, estatica, quasi incosciente.

Tutte le scelte esistenziali di Loi sono testimoniate dalla sua lingua: l’antifascismo, l’anti-intellettualismo, l’extra-accademicità, l’interesse antropologico verso il popolo, la libertà d’espressione e l’amore per il suono. L’aspetto più straordinario del dialetto milanese loiano sta nella sua atipicità, nella sua distanza dal milanese aulico del Porta. Quello di Loi si propone infatti come un vero e proprio idioletto poetico, frutto di una creazione letteraria sensibile alla musicalità del verso e ideologicamente orientata. Le cause che inducono il poeta alla scelta dialettale sono molteplici: il milanese imbastardito di Loi è il dialetto parlato dagli operai giunti a Milano, per trovarvi fortuna, dal meridione del paese. È dunque la lingua della riqualificazione sociale, della speranza nell’integrazione in un contesto percepito come premiante, migliore. Ma è anche l’unica via possibile alla vera poesia e alla vera sperimentazione, di fronte ad uno standard usurato, iperletterario, morto, forse mai esistito. Il dialetto è la lingua dell’antifascismo, poiché vietato nelle scuole, ed è dunque una lingua giusta, che è necessario difendere da illogiche unificazioni che violino la specificità culturale dei popoli. Peculiarità fondamentale del dialetto è, infine, la sua creatività, la sua natura plurilingue e profondamente fantasiosa.

L’esordio avviene nel 1973 con la pubblicazione de I cart, edizione a tiratura limitatissima, imbellita da illustrazioni di pregio, una tipologia di plaquette artigianale che si rivelerà ricorrente nella produzione del nostro. E così trascorrono gli anni Settanta, che vedono la pubblicazione delle opere così dette “epiche” di Loi: Stròlegh (1975), Teater (1978) e Liber (1981 I edizione, II ampliata nel 1994). Sono questi i lavori che conferiscono al poeta la notorietà letteraria istituzionale; è possibile dunque imputare alla loro ricezione quella semplificazione unidimensionale che ha ridotto una personalità poetica complessa come quella di Loi al ruolo di neodialettale di corrente narrativa, come Brevini lo definisce. È famoso il lusinghiero giudizio di valore di Mengaldo, del quale Loi tuttavia non andrà mai particolarmente fiero, vedendolo riprodotto a convalida del proprio nome su ogni antologia, a mo’ di sterile imprimatur.

Il Franco Loi che ammiro di più fiorisce negli anni Ottanta, con una serie di elegantissime raccolte tra le quali vanno ricordate Lünn (1982) e Bach (1986). È forse quest’ultima l’opera nella quale Loi conduce la ricerca fonetica agli estremi delle sue riuscite poetiche: Me piasarìss parlàt sensa savè/ che passa des minüt, e, nel lassàss,/ sarà cume vardàt sensa vedèt,/ cume despèrdess per mai pü truàss,/ sarà cume la vita che se trâs/ e la returna pü nel recurdàss (Mi piacerebbe parlarti senza sapere/ che passano dieci minuti, e, nel lasciarci/ sarà come guardarti senza vederti/ come disperdersi per mai più trovarsi,/ sarà come la vita che si disperde al vento e non ritorna più nemmeno nel ricordo). Si è qui di fronte al momento più alto della purezza poetica loiana, il dialetto milanese è sfruttato in tutta la sua potenzialità musicale, i suoni si fanno provenzaleggianti, le tematiche trattate sono ormai distanti dalla contingenza storico-politica e dalle rabbie sociali. C’è piuttosto un interesse quasi onirico nei confronti del mondo naturale, dell’emozione sensoriale, la ricerca è tutta spostata sul piano formale, il significante si assolutizza. Si legga un verso come “Mì sun felìs…”, par dìs, de sfrus,’na vus (“Io sono felice…”, sembra dire, sommessa, una voce.) È questa straordinaria valorizzazione del suono che allontana il poeta dal suo intento sociale e lo avvicina all’ascolto di sé. Non è rimasto nulla dell’espressionismo epico di un tempo, spesso nutrito di trivialità, mostruosità e degrado, ossessivamente puntellato dalle battute di un dialogo a più voci tra gli umiliati e offesi della Milano operaia degli anni 70. Allo strenuo operaismo marxista si sostituisce l’astrazione artistica, preludio però di sconfinamenti eterogenei, alcuni dei quali forse risparmiabili alla panpubblicazione. È questa poesia che, tuttavia, non approda mai ad autarchico solipsismo e che il poeta stesso rifiuta di definire intimista, rifuggendo come sempre da qualsiasi forma di isolamento egocentrico ed intellettualistico.

 La scelta aulica si ripropone all’inizio degli anni Novanta in libri come Ümber (1992) e Arbur (1994). L’impronta naturalista dei titoli riconduce il lettore ad atmosfere eteree, trasognate. Si riproduce il passaggio al momento dell’introspezione lirica, forse conseguente ad una sin troppo cruda coscienza del reale storico. È questo Loi meno illuso e forse più disperato che, al massimo della propria antieloquenza, e nel pieno di una inevitabile solitudine, si confronta dolorosamente con la morte, il poeta al quale esprimo tutta la mia riconoscenza di lettrice.